Graveyard of Honor, recensione di Riccardo Rosati

Graveyard of Honor

Genere: azione

Nazione: Giappone

Anno produzione: 2002

Durata: 130′

Regia: Takashi Miike

Cast: Goro Kishitani, Hirotaro Honda, Harumi Inoue, Renji Ishibashi, Takashi Miike, Ryosuke Miki, Mikio Osawa, Daisuke Ryu, Harumi Sone, Shun Sugata, Tetsuro Tamba, Yoshiyuki Yamaguchi, Shingo Yamashiro

Sceneggiatura: Shigenori Takeuchi

Distribuzione: Dynit

 

Da lavapiatti a boss

Grazie al suo salvataggio di un potente capobanda in un locale dove fa lo sguattero, Ishimatsu Rikuo entra a tutti gli effetti nel clan Sawada, scavalcando di colpo molti vecchi affiliati. La sua indole è grezza, incontenibile e violenta, e questo non lo rende certo degno di fiducia in un mondo fatto di molte fragili regole. A causa del suo isolamento, una volta in carcere, egli si trova a stringere amicizia    con l’esponente di una gang rivale.

L’amore malato per la sua donna, i continui sospetti verso personaggi che lo circondano con sguardi sinistri; tutto confluisce nel tremendo vortice di cinica violenza che lo risucchierà sino a distruggerlo.

 

Gli Yakuza non sanno nulla dell’onore

Graveyard of Honor ( 新・仁義の墓場, “Shin Jingi no Hakaba”) è il remake di un classico Yakuza Eiga (film narranti la malavita giapponese) diretto quasi trenta anni fa da Fukasaku Kinji. In questa pellicola Takashi Miike ripropone con forza un genere cinematografico tipicamente nipponico. L’occhio del regista sembra tuttavia intriso di un tono nostalgico verso un Giappone ormai lontano, sebbene la storia sia ambientata in epoca recente, quella della società post-Bolla per intenderci, dove anche i mafiosi hanno perso le proprie  coordinate.

Ishimatsu è una scheggia impazzita: non ha onore e non sa distinguere tra amici e nemici, agendo di puro istinto come un animale. Il suo personaggio incarna l’arroganza degli Yakuza, i quali si considerano uomini migliori rispetto al resto della Popolazione, solamente per il fatto che non seguono le regole della società. Loro si sentono più forti perché trasgrediscono, non accorgendosi che, differentemente dai mafiosi nostrani, finiscono quasi sempre controllati e ghettizzati dalla stessa comunità che si illudono di dominare. I malavitosi in Giappone sono paradossalmente parte della società e non “contro” di essa, questa è la grande differenza con le altre forme di criminalità organizzata sparse per tutto il mondo.

 

La trama presenta una storia che incarna tutto il rivoltante maschilismo degli Yakuza, per i quali le donne sono solo oggetti. Le tanto celebrate passività e accondiscendenza della donna nipponica sono messe in questo film un po’ in ridicolo, visto che i gangster scelgono, come nel caso del protagonista, una partner e ne dispongono a proprio piacimento, e la povera malcapitata, invece di ribellarsi e denunciare le molestie subite, tace, cura le ferite e offre persino asilo al suo carnefice. Il tutto senza fare mai una domanda.

 

Come al solito Miike ci offre l’altra faccia della medaglia. Ovvero, l’osannata cultura della geisha viene mostrata corrotta da un maschilismo prepotente e che trova la sua radice nel Confucianesimo cinese che sta alla base della antica società feudale del Sol Levante – oggi  ancora presente in buona parte dell’universo lavorativo di questo Paese – a cui spesso gli stessi Yakuza impropriamente si richiamano.

 

Da notare la grossa cura del regista per la colonna sonora, che si rifà sovente a generi occidentali. Ad esempio, troviamo una melodia Jazz un po’ banale, ma che è adatta ad alcune atmosfere notturne della storia. Molto ben scritti risultano poi i dialoghi che fanno da contraltare a una presenza limitata di momenti di pura azione. Magistrale resta la scena dove il protagonista, in preda agli effetti allucinatori della droga, ingaggia un furibondo scontro a fuoco contro il nulla, interamente disteso sul pavimento del suo appartamento.

 

Questa opera affronta una tematica poco trattata dal cinema giapponese se messo a confronto con quello occidentale: l’utilizzo della droga che fa Ishimatsu non è semplicemente il segno che egli ha raggiunto il baratro, ma è ancor di più la reiterazione di uno dei messaggi principali nella cinematografia di Miike, sebbene si tenti di uscire da questa oscura società, si resta sempre e comunque prigionieri di città disumane e di ritmi di vita incalzanti. Perciò droga e violenza rimangono le uniche e disperate vie di fuga da questo tipo di condizione.

Riccardo Rosati

 
Caratteristiche tecniche

Formato Video: 16:9 anamorfico.

Formato audio: ITALIANO DTS 5.1 ITALIANO Dolby Digital 5.1.
ITALIANO Dolby Digital Surround 2.0, GIAPPONESE Dolby Digital.

Surround 2.0.

Sottotitoli: Italiano.

La qualità audio e video è buona. I colori, che rimandano ai film degli anni ’70, sono resi bene sullo schermo. Discreto il doppiaggio in italiano.

Contenuti speciali

Trailer titoli Dynit di Takashi Miike.