Il primo re, di Matteo Rovere
Film straordinariamente ambizioso. E straordinariamente riuscito. L’aggettivo “straordinario” è spesso abusato, ma mai come in questo film è pertinente. Film come questo nel cinema italiano sono rarissimi da vedere. Forse non si sono mai visti. A cominciare dallo studio preparatorio, condotto con ricercatori universitari di archeologia e antropologia delle università romane Sapienza e Tor Vergata.
Una ricostruzione filologica mai effettuata prima della lingua protolatina parlata dalle oltre trenta tribù barbariche che abitavano l’attuale basso Lazio nell’ottavo secolo a.C. , sulla base di frammenti, iscrizioni e notizie successive di tradizione orale (non esiste, infatti, l’equivalente della “Stele di Rosetta” per quella lingua), innestate in una base di lingua indoeuropea. È la lingua parlata nel film, che assieme alle imponenti scenografie ci immerge con grande efficacia nel contesto storico.
Uno sforzo produttivo senza precedenti (circa 9 milioni di euro di budget, che si vedono proprio tutti sullo schermo). L’operazione costituisce anche un riferimento imprescindibile per capire le origini della civiltà romana che nei secoli successivi avrebbe dominato gran parte del mondo. Il film e’ animato, ispirato e informato da temi fondamentali e archetipali: il mito, il divino, il destino, il libero arbitrio, la logica del potere, la nascita della mediazione politica. La potenza emotiva è grande. Il film è straordinariamente avvincente, avvolgente, coinvolgente. Grande merito va ascritto non solo al visionario regista, Matteo Rovere, ma anche ai due sanguigni interpreti, Alessandro Borghi (Remo) e Alessio Lapice (Romolo).
Il corriere – The Mule, di Clint Eastwood
Clint Eastwood, nell’interpretare il suo Gran Torino, nel 2008 – quando di anni ne aveva 78 – aveva detto che sarebbe stato il suo ultimo ruolo da attore. Ma poi, quando di primavere ne aveva ormai 88 suonate, è stato attratto e probabilmente divertito dall’opportunità di interpretare il ruolo di un personaggio perfino più vecchio di lui: quello del più anziano corriere della droga della storia, il novantenne Leo Sharp.
Il film è infatti ispirato a una storia vera, raccontata nell’articolo The Sinaloa Cartel’s 90-Year-Old Drug Mule (Il novantenne corriere della droga del cartello Sinaloa) di Sam Dolnick per il The New York Times, a seguito dell’intervista di Dolnick all’agente DEA Jeff Moore, che l’aveva scoperto e arrestato.
Da Clint Eastwood, un vero mito del cinema mondiale (72 film da attore, il primo 64 anni fa; 40 film da regista, il primo 48 anni fa e il prossimo dopo questo già in montaggio; 4 oscar; 144 premi vinti e 158 nominations) a ogni nuovo film ti aspetti sempre un capolavoro assoluto. E, in effetti, le aspettative non vanno mai (totalmente) deluse. Negli ultimi quattro decenni non ha mai sbagliato un film. Non fa eccezione questo Il Corriere. Scritto dallo stesso sceneggiatore di Gran Torino, Nick Schenk, è impeccabile nella messa in scena e nel montaggio (da American Sniper in poi è tornato il più fedele montatore di Eastwood, Joel Cox, che ha collaborato con il regista a ben trenta film; quasi tutti quelli realizzati da Il texano dagli occhi di ghiaccio in poi, tolti i soli Firefox, Sully e Ore 15:17 – Attacco al treno).
Il Corriere è un film dalle struggenti atmosfere crepuscolari, in cui Eastwood non nasconde nessuna delle sue rughe. In cui sembra voler riflettere sulla sua lunga e fortunata carriera, che lo ha portato a preferire la professione alla famiglia, con evidenti riferimenti autobiografici, dalla figlia che ha trascurato (non a caso il ruolo è affidato alla sua figlia nella vita, Alison), alla moglie che assiste sul letto di morte, come gli è avvenuto di recente con Sondra Locke. E, soprattutto, con il tema che lo angustia maggiormente: l’impossibilità di comprare il tempo della sua vita, che vede ormai agli sgoccioli. Siamo comunque nei dintorni del grande cinema.
Tintoretto – Un ribelle a Venezia, di Pepsy Romanoff (Giuseppe Domingo Romano) e Peter Greenaway
Questo film è un capolavoro geniale. Come lo era Tintoretto. Fornisce un ritratto poetico e sanguigno al contempo di un artista geniale; di un lavoratore infaticabile e inarrestabile (nemmeno la peste è riuscita a fermarlo); di un talento artistico immenso, ma anche di una straordinaria sagacia strategica nella competizione spietata con un maestro come Tiziano, all’epoca molto più quotato di lui.
Tintoretto come primo regista cinematografico della storia, come lo definì Jean Paul Sartre, che costringeva gli ammiratori a guardare la sua opera da angolazioni inusuali. Ma anche uno spirito da pirata, con straordinaria velocità di esecuzione e prezzi bassissimi. Poche e precise pennellate, date alla velocità della luce: questo il suo segreto.
The Great Buster: A Celebration, di Peter Bogdanovich
Film del grande Peter Bogdanovich che è una vera lezione di cinema. La lezione di Buster Keaton, un genio assoluto della settima arte. È stato l’inventore di gag mitiche, che sono state riprese più volte nel cinema che lo ha seguito. Una su tutte: l’esplosione a seguito dell’inavvertito appoggio di un piede sul meccanismo di innesco, ripreso, tra gli altri, dal celeberrimo Hollywood Party di Blake Edwards. Oppure la facciata di una casa che crolla addosso all’attore, che rimane illeso perché in corrispondenza di una finestra aperta. E ancora un’infinità di invenzioni, come i meccanismi a fune per passarsi sale, bibite e condimenti a tavola senza doversi alzare. E ancora, il treno che sta per investire una autovettura e poi sfila via su altro binario. La giacca appesa a un filo con la molletta, con l’attore dentro. Le scarpe che restano incollate a terra. Le candid camera. E chi più ne ha più ne metta.
Buster Keaton aveva poi una qualità supplementare rispetto ad altri grandi cineasti: uno straordinario controllo del suo corpo, che ne ha fatto uno degli stunt di sé stesso più famosi ed efficienti della storia del cinema. Un autore che ha ispirato tutti, e di tutto, dai cartoons di Bugs Bunny alla faccia di pietra di Spiderman. La maschera tragicomica più grande della storia del cinema, cui rimanda il nostro Valerio Mastandrea, forse l’erede più aderente a livello espressivo. Film imprescindibile, per cinefili e non.
J’accuse (l’ufficiale e la spia), di Roman Polanski
Questo capolavoro di film di Roman Polanski è la migliore dimostrazione dell’insensatezza del condizionare il giudizio su un’opera d’arte sulla scorta delle (supposte) qualità umane e comportamentali dell’artista che l’ha prodotta. Sarebbe come negare il genio assoluto dei dipinti del Caravaggio perché il pittore non era, notoriamente, uno stinco di santo.
Mi pare, quindi, davvero inaccettabile che si debba ancora oggi, a distanza di 42 anni da una controversa vicenda penale per la quale peraltro la vittima ha da tempo ritirato la denuncia, nutrire riserve preventive sui film di Polanski. A maggior ragione se a farlo è la presidente della Giuria principale del concorso della Mostra, con una dichiarazione pubblica in conferenza stampa. Ma forse è il caso di tornare a parlare di cinema.
J’accuse (dal celeberrimo titolo di un atto di accusa ai vertici militari e governativi da parte dello scrittore Émile Zola) è un film che andrebbe portato in tutte le scuole di cinema per mostrare come si racconta una storia sul grande schermo. Nonostante lo scandalo sia stato uno dei maggiori del secolo scorso, e quindi le vicende sono largamente conosciute, il film tiene gli spettatori incollati alle poltrone per oltre due ore con atmosfere da thriller e l’incalzare incessante nello sviluppo della storia. Con colpi di scena a ripetizione, sapientemente dosati. Con una ricostruzione storica minuziosa della discriminazione sociale di Dreyfus in quanto ebreo, e della lunga e faticosa lotta per la reintegrazione sociale dello stesso. Impianto scenografico portentoso. Confezione superlativa. Attori superlativi, splendidamente diretti.
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