Recensione di Massimo Nardin
Il regista Fabrizio Ancillai, prendendo spunto da fatti di cronaca purtroppo frequenti, ha il merito di astrarre una dinamica di coppia dai molti tratti ricorrenti e di proiettarla in una dimensione sospesa tra la coscienza e l’incubo. Una situazione spezzata e irrimediabilmente compromessa i cui protagonisti, la vittima e il carnefice, si riflettono in se stessi attraverso l’altro, avendo al proprio fianco due “angeli custodi”, l’uno all’interno di un insolito commissariato di polizia, l’altro in un non-luogo di transizione, un al di là che consente una messa in comunicazione impossibile.
Se l’incomunicabilità era d’altronde imperante ben prima dell’evento delittuoso, adesso il dialogo si fa tanto necessario quanto irrealizzabile: la distanza è incolmabile; viene suggerita con sottile precisione da Ancillai in tutto il cortometraggio, e si palesa nella propria tragicità in quell’immagine spezzata in due (un semi-quadro alla vittima, l’altro al carnefice) e nel dialogo temporalmente sfasato.
Dal punto di vista fotografico, Burning Red evidenzia cromatismi stranianti che, a loro volta, evocano la sfera onirica o comunque spazi non strettamente reali. Un corto che va oltre la cronaca portando rinnovata attenzione su di essa, attraverso una doppia evoluzione completa (soprattutto sul versante della vittima), due protagonisti chiamati a prendere entrambi piena e dolorosa consapevolezza: l’uno della propria colpa, l’altra – come suggerisce l’angelo – di non avere colpa alcuna. Un percorso di (auto)riflessione che dovrebbe consentire alla vittima di far pace con se stessa, e al carnefice di cominciare un tortuoso percorso di espiazione.
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