Recensione di Massimo Nardin
Sono in molti a dirlo e io ne sono fermamente convinto: un attore comico dimostra di essere un interprete completo quando è capace di recitare anche in ruoli drammatici. Lo ha fatto Massimo Boldi in Festival di Pupi Avati, una delle sue interpretazioni più interessanti; lo ha fatto Diego Abatantuono in diverse occasioni; lo fa Adolfo Margiotta in questo Nero su bianco, in cui guarda a e oltre il personaggio che ha costruito brillantemente nel corso degli anni in televisione e al cinema, una figura dissacrante e autoironica.
Qui il protagonista è potentemente drammatico, e il percorso narrativo disegnatogli con intelligenza da Angelo Frezza è completo: la partenza è all’insegna della totale chiusura, con gli improbabili muri eretti contro la diversità che disturba una quiete misera ed egoistica; piano piano, tuttavia, attraverso una serie calibrata e al tempo stesso discreta di colpi di scena, questi muri vengono sgretolati, abbattuti, persino scavati, se è vero che il protagonista si ritrova letteralmente a terra. Là l’unica mano che lo aiuta a risollevarsi appartiene proprio al “diverso” che lui aveva poco prima allontanato da sé. Un allontanamento adesso impossibile, nella misura in cui egli ha scoperto dentro di sé la diversità, che non soltanto abita nel suo corpo, ma addirittura gli dà vita. Il corto risulta così metaforico al massimo grado.
Mi preme infine portare l’attenzione sullo sguardo che, prima della caduta, il protagonista dà a se stesso dentro lo specchio, un se stesso diverso. Penso che Frezza si sia ispirato anche a un altro attore comico (sebbene sia riduttivo definirlo così), Buster Keaton, reclutato a suo tempo da Samuel Beckett per il suo mirabile cortometraggio Film. In quest’altro piccolo e prezioso film, lo sguardo finale di Keaton assomiglia molto – in termini di terrore misto a sorpresa e salvifica apertura – a quello di Margiotta.
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