La prima documentarista della storia del nostro Cinema
Addio a Cecilia Mangini
di Armando Lostaglio
Ci ha appena lasciato una grande regista, protagonista del Cinema del reale: Cecilia Mangini, la prima donna documentarista in Italia del dopoguerra. Era nata a Mola di Bari ne luglio del 1927, ma presto si trasferì con la famiglia a Firenze. Con la Puglia aveva sempre mantenuto dall’infanzia un rapporto di affetto, anche legato alle sue curiosità di natura sociale ed etnica: esemplare il suo lavoro sulla Grecìa salentina dal titolo “Stendalì – Suonano ancora” datato 1960. Fu il cinema di Jean Renoir con “La grande illusione” a folgorarla e ad avvicinarla al cinema; a Firenze frequenterà i cineclub o GineGuf e quindi conosce il grande cinema internazionale, conquistata sempre più dal Neorealismo. L’esordio da documentarista avverrà grazie all’illuminato produttore Fulvio Lucisano. Il contatto con la poetica di Pier Paolo Pasolini rappresenta la svolta, imponendosi all’attenzione del mondo della celluloide. Eppure a Venezia, nonostante la forza e l’intensità delle opere, il documentario non aveva ospitalità. Ecco cosa scrisse Cecilia in una intervista rilasciata a Carolina Minguzzi (Cinema Ritrovato, Bologna): “Ho una dichiarazione da fare. Quando volevo fare cinema, sapevo di una scuola a Roma molto prestigiosa, una bella mattina, all’epoca vivevo a Firenze, ho preso il tram e sono arrivata fin là. Sono poi andata all’ufficio informazione e ho detto: “ditemi tutto quello che serve, qui da voi, per diventare regista”. Mi hanno guardata sbalorditi e hanno risposto: “no, impossibile. Le donne non possono fare regia”. A quel punto gli chiesi che cosa potessero allora fare le donne e mi risposero: “Ah, tante cose. Le sarte, le costumiste, le truccatrici, l’aiuto truccatrici, il taglio del negativo, ecco cosa possono fare le donne”. Sono rimasta allucinata, perché solamente gli uomini potevano fare regia! Così decisi che avrei fatto comunque regia e avrei cercato di fare di tutto pur di farla, però era una specie di sogno. Fino a quando un bel giorno mi hanno chiamata e mi hanno proposto di fare un documentario ed io sono quasi svenuta dalla gioia. E quindi beati voi ragazze e ragazzi che potete fare cinema. Tutto è libero, tutto è permesso, spero che non facciate film né maschilisti né soprattutto femministi con le quote rosa che trovo addirittura indecente perché siamo tutti uguali, siamo tutti persone. Quindi auguri per aver scelto forse il più bel lavoro del mondo, almeno per me“. Dicevamo di Pasolini, cui collaborò con impegno. Cecilia inizia a dirigere, assieme al marito e anche in collaborazione con il poeta regista, lavori documentaristici sulle periferie urbane e sul controllo sociale delle classi subalterne. Nel 1958 debutta con il cortometraggio a colori “Ignoti alla città”, ispirato al romanzo “Ragazzi di vita” con il quale Pier Paolo Pasolini, appena tre anni prima, aveva disegnato con immensa poetica la vita degli adolescenti nella ripetitiva quotidianità delle borgate romane. Il cono d’ombra restava il boom economico cui il sottoproletariato ne veniva magnetizzato tra sogni di riscatto ed espedienti di sopravvivenza, spiccioli rubati ed improvvisate lotte di cani. Nei primi anni Sessanta la collaborazione con Pasolini si rinnova con “La canta delle Marane”, ritenuto tra i più riusciti documentari della storia del nostro Cinema: piani sequenza prolungati che inseguono corpi mingherlini di ragazzini pieni (anch’essi) di vita, ancora nelle periferia romana: le immagini restituiscono “l’incanto di un mondo ancora immune alla modernità”. Con “Comizi d’amore” insieme a Pasolini girerà per la RAi una inchiesta negli anni Sessanta sulla sessualità dell’italiano medio: una vera rivoluzione mediatica per quegli anni. Operazione che negli anni 80, una ventina di anni popo, ripeterà, sempre con la Rai. Molti i riconoscimenti ottenuti anche all’estero da Cecilia nel corso della sua tenace carriera: al festival documentario di Lipsia per “Essere donne”; nel 1961 “Fata Morgana”, di cui è coautrice della sceneggiatura, ottiene il Leone d’oro a Venezia (una bella rivincita); più avanti conquista il Pardo d’oro al festival del cinema di Locarno con “Antonio Gramsci – I giorni del carcere (1977), del quale firma soggetto e sceneggiatura insieme a Lino Del Fra, che ne cura la regia. La pellicola, che vede il grande attore pugliese Riccardo Cucciolla nei panni del protagonista: racconta con rigore storiografico gli anni di prigionia dell’intellettuale comunista nel carcere di Turi (in Puglia), “evidenziando la complessità delle relazioni interpersonali con i compagni di prigionia, con i familiari, con i dirigenti del partito ancora in libertà.” I coniugi-registi restano nell’area del comunismo eterodossio, muovendo l’uno da posizioni marxiste antistaliniste e l’altra da un approccio libertario e anarchico, operando in maniera indipendente, senza aver rapporti diretti con il Partito Comunista. Nel corso della lunga carriera, Cecilia ha incrociato tanti intellettuali ed artisti del suo tempo, da Ernesto De Martino e Luigi Di Gianni (il documentarista di origine lucana) a Lino Micciché, al poeta Franco Fortini ad attori come Giancarlo Sbragia, Emilio Cigoli, Nando Gazzolo. Un messaggio di lungo respiro che la tenacia di Cecilia Mangini ha saputo lanciare con i suoi lavori, che una attenta programmazione di Servizio pubblico (Rai e non solo) dovrebbe tenere in costante considerazione. I Cineclub dovranno farlo, per la passione civile che li anima, per l’affetto verso i pionieri del pensiero evoluto – come Cecilia – che il Cinema ha saputo sublimare.