XIV EDIZIONE – Finalisti 2021
Critica Cinematografica Armando Lostaglio
opere 5 giugno 2021
Sisterhood di Domiziana De Fulvio
Si intrecciano idealmente, pur vivendo in parallelo, le vite di ragazze che amano il Basket, quale momento di confronto e di aggregazione. L’attenta e serrata regia di Domiziana De Fulvio ci conduce nei campi di basket urbani, da Beirut a Roma e fino New York. Le immagini nitide e non convenzionali ci mostrano come le ragazze sfidino il loro tempo, la loro quotidianità per rendersi partecipi di un gioco che poi non è solo un gioco: è metafora di aggregazione e di accoglienza, di solidarietà e di armonia dei corpi. Che indossino l’hijab oppure no, che siano bianche o di colore, che siano giovanissime o meno, tutte giocano e affrontano a viso aperto la quotidiana guerra non scritta verso gli stereotipi di genere, discriminanti e socialmente pericolosi. La partita in gioco è fare un canestro in più, arricchire il conto con il tabellone della vita.
Harrag di Smail Beldjelalia
Clandestini. La vita errante di chi non ha colpe. La fuga via mare, la vita da perseguitati, clandestini senza meta. Vogliono solo vivere in pace, lavorare e magari dimostrare ai familiari che stanno meglio di quando sono partiti. Il dolore di una madre che non vuole vedere partire il figlio, che comunque tenta la navigazione mediterranea a rischio della vita: la confessione del giovane algerino, sfuggito dalla povertà dopo aver perso il suo lavoro, resta una sequenza assai commovente del film, ripresa con toni caravaggeschi. La sua voglia di affermarsi, di crescere e ricambiare l’amore materno, di vivere con onestà. È un film alquanto riflessivo, sulla sorte degli invisibili che vagano sulle nostre strade, nelle periferie, anche nei piccoli centri. Loro sono qui e non vogliono ritornare indietro da sconfitti, nonostante la forza affettiva sia sempre un richiamo come sirene. La loro tenacia riflette la stessa che ebbe Nino Garofali (Manfredi) nel finale del capolavoro Pane e cioccolata di Brusati.
Il direttore di Maurizio Orlandi
È un film che documenta gli anni delle lotte nella Torino operaia anni ‘70, città in grado di metabolizzare non senza traumi i fermenti di un Paese in cerca di identità, di autocoscienza, fra battaglie sindacali e frange autonome che si sono poi sviluppate nella clandestina lotta armata. La storia del direttore della azienda toscana in Piemonte è il riflesso di un uomo perbene che diventa importante anche nei rapporti di lavoro e in famiglia.
Una lettura filmica rigorosa e accorta ci accompagna sulle orme di Albo Orlandi, che era il padre del regista. Era nato a Gavorrano, nella Maremma toscana, dove faceva l’impiegato nella miniera di pirite della Montecatini, poi divenuta Montedison. Nel 1969, verrà trasferito alla Farmitalia di Settimo Torinese, come Direttore del personale. Il regista racconta, con la tenerezza di un album di famiglia, la capacità (parallela) di un Paese di reagire e fare proprie le inquietudini palesi, in quel decennio difficile. Di certo, non è semplice “fare pace” dopo mezzo secolo con esistenze che, alla lunga, si guarderanno con più rimpianti che esultanze. Di certo quella storia si riflette con quella di una comunità nazionale che ha gradualmente abbassato ogni fervida tensione morale e civile, quella sì, vittima di un presente politico per nulla edificante, se non da abiurare.
Niños Maya di Veronica Succi
Veronica Succi con il suo straordinario viaggio fra i “Niños May”, rivolge un carezzevole sguardo all’infanzia talvolta violata dei bambini e degli adolescenti fra quelle popolazioni ancora poco sfiorate dalla “civiltà”. Mondo Maya, Latino America, nel quale la civiltà precolombiana aveva maggiore rispetto per i minori e per le donne. È talvolta uno sguardo di madre o di fratello maggiore, mentre l’occhio della camera scruta ogni particolare, nei gesti spontanei dei bambini, un po’ imbarazzati dalla nuova situazione: essere ripresi in un attimo di protagonismo in una storia che forse non interessa a nessuno, oltre quei luoghi remoti e bellissimi. È pertanto un film necessario questo della Succi, mentre osserva la gioia negli occhi dei bambini Maya e con un invito solidale e umanitario, volto a migliorare le condizioni dell’infanzia di quel mondo violato. Questo documentario è dedicato a tutti i bambini incontrati durante le riprese e, in particolar modo, a coloro che non ci sono più. È un film commovente.
Libertà di Savino Carbone
Libertà di Savino Carbone. Siamo a Bari, nei mesi scorsi. Il quartiere di riferimento si chiama proprio Libertà. E stranamente confligge con il concetto stesso di essere liberi. Da cosa? Qual è il suo significato oggi? L’occhio attento del regista Savino Carbone segue i percorsi distinti di due migranti, un ragazzo ed una ragazza, con una caratteristica discriminante in più: sono omosessuali. Forse per la prima volta viene affrontata questa problematica che va ad aggiungersi alle altre. La loro condizione di richiedenti asilo in Italia diventa oltremodo insuperabile. Le due vite parallele, dopo aver lasciato con mezzi di fortuna (si fa per dire) il Senegal e la Nigeria, arrivano da noi e vagano per strade a loro ignote. Sono qui per sfuggire alle persecuzioni contro la comunità LGBT. Nei due paesi, infatti, l’omosessualità è un reato punito con il carcere e dove vige la Shari’a, la lapidazione. E poi la Libia, da dove partono i barconi, ritenuto “paese di morte!” è semplicemente tenera la confessione dei due migranti quando mettono a nudo la propria intima sessualità, con il timore di esprimerla.
Mentre i due vivono in una sorta di sospensione esistenziale, in Italia iniziano a manifestarsi gli effetti tragici dei decreti sicurezza voluti dalla Lega. La dignità di due quei giovani stride contro l’arroganza e l’opulenza di politicanti che non la meritano e la ostentano nelle sconfortanti apparizioni televisive.
La loro sorte ci lascia carpire quanto importante sia vivere in un paese libero (il nostro, pur con tutti i suoi difetti), e chi invece proviene da dittature ataviche, cui l’Occidente non è esente da colpe.
Vuoto a perdere di Alfio D’Agata
Fanno tutte e tutti una profonda tenerezza. Alfio D’Agata, nel suo “Vuoto a perdere” consegna una visione diversa di trattare la diversità. Le storie raccontate da Alessia, da Angela, da Mara, Masha, da Gaetano e Dalila creano un alone di rimorso verso quanti spesso discriminiamo, da parte di chi, sentendosi “normale”, rivolge loro uno sguardo obliquo, distorto quasi, sprezzante spesso. Alfio D’Agata fa un’operazione di quelle non facili in una Sicilia ancorata come da tradizione ad un mito di maschio che non lascia scampo ad equivoci. La sua incisiva visione svolge un ruolo fra il terapeutico e l’ammaliante: una liturgia che diventa preghiera, che evoca indulgenza. E così, il film scorre con un crescendo di ansiosa perspicacia carezzando quelle persone, qualcuna chiede addirittura perdono, a Dio e al mondo. Quando saremmo invece noi a chiedergli perdono. Un film da trasmettere soprattutto a quanti si sentono padroni del mondo e della vita degli altri. Film coraggioso.