ENZO NATTA, MIO MAESTRO E MENTORE (A SUA INSAPUTA…)
Catello Masullo
Enzo Natta è fisicamente morto. Ma non lo sarà mai come sublime critico cinematografico, come uomo di cultura, come romanziere raffinato e tanto altro. Da ragazzino coltivavo la mia passione per il cinema, manifestatasi prepotente già in età pre-scolare, non solo vedendo molti film, ma anche leggendo molte critiche e saggi cinematografici. Su quotidiani e settimanali, naturalmente. Ma presto cominciai a frequentare anche le riviste specializzate. Fui subito colpito dagli scritti di Enzo Natta. Perché, pur scritti in maniera impeccabile e rigorosa, erano esaustivi, puntuali e, soprattutto, erano facili da capire, per un giovanissimo inesperto come me, con un bagaglio culturale ancora molto limitato. Ho continuato a leggerli e rileggerli per molti anni. Quando ho cominciato a scrivere di cinema, molti anni dopo, ho constatato che l’insegnamento di Enzo Natta era stato per me davvero prezioso e formativo. E mi sono reso conto che era stato mio maestro e mentore, seppure a sua insaputa. Non avrei mai immaginato un giorno di incontrarlo, di parlarci e, perfino, di condividere con lui una “missione”. L’ho trovato membro, non so da quanti anni, del Comitato di Selezione del Premio Cinema Giovane & Festival delle Opere Prime del Cinecircolo Romano, quando fui chiamato a farne parte. Fu una grande emozione. Ricordo con grande piacere le discussioni appassionate, a volte anche vivaci e vibranti, sul valore e sulla qualità dei film di esordio esaminati e sulla loro inclusione o meno nel programma. E fui (piacevolmente) stupito quando Enzo Natta, in alcune occasioni, si batté con forza ed autorevolezza nel supportare mie proposte di inclusioni in programma, che venivano, invece, osteggiate da altri membri del Comitato. La sintonia e la simpatia furono immediate. E questo fu per me un grande onore. Quando nel 2014 stavo per pubblicare una raccolta dei miei articoli e corrispondenze dalla Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia dei dieci anni precedenti, mi venne spontaneo pensare di chiedere all’amico Enzo se avesse voluto scrivere due righe di prefazione, ma ero titubante. Sia perché temevo che il mio lavoro fosse tutt’altro che all’altezza di cotanto critico, sia perché, non senza stupore, avevo contato in poco più di mille pagine la foliazione della bozza e pensavo che una tale quantità di carta fosse una “punizione” non meritata da Enzo. Ma, ad una mia timida telefonata, ricevetti un’inaspettata, immediata ed entusiastica disponibilità a redigerla. Non mi dilungherò in questo affettuoso ricordo di Enzo in note biografiche, che si possono ritrovare in tante più dotte ed autorevoli pubblicazioni. Mi piace invece rendergli omaggio con la riproposizione integrale di quella prefazione. Che fu ulteriormente impreziosita dalla bella presentazione orale che fece di quel saggio Franco Montini, da Presidente del Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani, al quale mi onoro di appartenere, in occasione della presentazione pubblica presso la Direzione Generale Cinema. Nella prefazione che segue, si legge tutta la sapienza, la storia, la generosità, la professionalità di Enzo Natta. In uno dei più bei film degli ultimi anni, “Coco” (non uno dei più bei film d’animazione, ma dei più bei film in assoluto), si esprimeva un concetto bellissimo: ogni essere umano cessa di esistere solo quando nessuno conserverà più memoria di lui e del suo operato. Questo non capiterà mai ad Enzo Natta.
PREFAZIONE
di Enzo NATTA
Quasi mille pagine. Con un insieme di notizie che, con tutta probabilità, non si trova neppure negli archivi della Biennale. Più di un brogliaccio, più di un diario di bordo, ma, parafrasando Woody Allen, “tutto quello che avreste voluto sapere sulla Mostra di Venezia e non avete mai osato chiedere”. Proprio tutto: il film, la sala in cui è stato presentato, il giorno, l’ora, i dati essenziali, i commenti. E poi le conferenze-stampa, con foto, nomi dei partecipanti, dichiarazioni e testimonianze. Non mancano, ovviamente, le schede dei film, con l’aggiunta di battute estratte dai dialoghi. Per dieci anni, dal 2014 a ritroso fino al 2005,
Un lavoro del genere è pari soltanto a quello che facevano Ricciotto Canudo, Léon Moussinac, Germaine Dulac e sodali nei primi cineclub all’inizio del secolo scorso, quando la programmazione delle poche sale parigine attrezzate alla bisogna non trovava alcun riscontro sulle pagine dei giornali. Di questo spirito ha continuato a nutrirsi la storia dei cineclub francesi, di cui Catello Masullo sembra aver raccolto il testimone.
Sfogliando il voluminoso tomo del “Parere dell’ingegnere” dedicato alla Mostra di Venezia mi sono sentito nei panni di Bastiano, il piccolo protagonista della “Storia infinita” di Michael Ende, che finisce per introdursi nelle righe della sua lettura fino a confondervisi. Proprio come era già successo al Buster Keaton di “La palla n.13”. In un viaggio nel tempo sono tornato indietro negli anni, quando vivevo nella riviera ligure di Ponente e pochi chilometri erano sufficienti per varcare il confine e proiettarmi in un “mondo nuovo” che ondeggiava fra il futuribile determinismo di Aldous Huxley e le magie visionarie di “Alice nel paese delle meraviglie”.
Il cineclub di Mentone era probabilmente il fanalino di coda di tutti i cineclub d’Oltralpe, ma convalidava in pieno il proverbio “nel paese dei ciechi gli orbi sono re”. Per me, uomo di frontiera, al di là di Ponte San Luigi si apriva un paese incantato e favoloso che neppure l’Arecco di Genova (unico cineforum nel raggio di 150 km) avrebbe potuto eguagliare. Non solo scoperta di terre sconosciute (la Nouvelle Vague in prima fila), autori come Chabrol e Truffaut che si mischiavano al pubblico, ma esperienze dirette di laboratorio e di metodologie critiche mai più praticate. Fu a Mentone che scoprii l’esatto significato del termine “cinéphile” e di quanti consideravano il cinema l’ombelico del mondo, centro di un sistema solare avvolto nella pellicola. E dove, neppure avevi fatto in tempo a sederti, ti trovavi circondato da gente che ti porgeva ciclostilati in cui trovavi di tutto e di più su quanto avevi visto in precedenza. Compreso quello che ti era sfuggito o di cui non ti eri accorto. Come mi ricapita ora con il volume di Catello Masullo, in un sapore di bottega rinascimentale, di artigianato di qualità che ti consente di scavalcare le barriere dell’ufficialità ingessata. Di non sentirti comparsa, ma protagonista. In questo senso il volume si prospetta come una specie di YouTube cartaceo, come un sito di condivisione che si fonda sul fai-da-te della comunicazione che lega saldamente l’evento all’iniziativa personale vivificata dall’autarchia culturale e dallo spirito pionieristico dei cineclub parigini del primo Novecento.
Se come diceva poco tempo fa Beppe Severgnini “il nome YouTube è un invito: fatti la tua televisione”, il volume sulla Mostra di Venezia dell’ultimo decennio risponde all’invito di farsi la propria cronaca e la propria critica.
Nella scheda dedicata a “Il giovane favoloso” Catello Masullo riporta una curiosità che si riferisce a quando Giacomo Leopardi/Elio Germano tenta di tagliare una fetta di carne senza l’aiuto del coltello e alla fine ci riesce. Lo stesso vale per quest’opera. Portata a compimento senza bisogno di ricorrere a strumenti apparentemente indispensabili.