Il cinema di Pasolini come “amore del vivere dentro le cose, nella vita, nella realtà”
“Come opporsi al cinema come medium della cultura di massa? Facendo del cinema aristocratico: inconsumabile. Proprio come la poesia, i cui libri sono pubblicati in un numero limitato di esemplari, poche migliaia, poiché poche migliaia ne sono i lettori … Uccellacci e uccellini, Teorema e Porcile hanno voluto essere inconsumabili … sono almeno indigesti o addirittura indigeribili: i consumatori li mettono in bocca ma poi li sputano, o passano la notte con il mal di pancia”. (Pasolini, da “Il caos”, rubrica su Tempo Illustrato, 1969).
“Come in un film di Godard”: solo/ in una macchina che corre per le autostrade/ del Neo-capitalismo latino – di ritorno dall’aeroporto –/ (là è rimasto Moravia, puro fra le sue valige)/ solo, pilotando la sua Alfa Romeo...”: sono i primi versi di una lunghissima poesia del 1964, dal titolo Una disperata vitalità, di Pier Paolo Pasolini. Una poesia che entrò a far parte della raccolta Poesia in forma di rosa e nella quale il poeta e narratore, ormai regista affermato (ha appena girato Vangelo secondo Matteo), ribadisce la sua scelta, irreversibile, per il cinema come linguaggio il più aderente alla realtà, anzi come strumento di comunicazione che, racchiudendo e conciliando in sé l’intuizione poetico-sentimentale della poesia e la cruda e razionale oggettività del romanzo, supera entrambe queste forme di espressione artistica.
Un rapporto, quello di Pasolini con il cinema, che negli anni successivi è destinato a rafforzarsi e consolidarsi attraverso opere sempre più impegnative e dal profondo significato filosofico-religioso. “… Io amo il cinema perché con il cinema resto sempre al livello della realtà. E’ una specie di ideologia personale, di vitalismo, di amore del vivere dentro le cose, nella vita, nella realtà”, afferma Pasolini in un’intervista del 1967 alla rivista Filmcritica (numero gennaio-febbraio); un rapporto “cinema-realtà” che il grande regista continuerà ad approfondire fino alla morte. In un saggio del 1975, dal titolo “Tre riflessioni sul cinema”, affermerà: “Ecco un ruolo per il cinema, non imposto, non voluto, non deciso dai tetri custodi della Legge: rispecchiare attraverso un’espressività deperita e sopravvivente un mondo inespressivo, esprimendosi attraverso di esso”.
Il cinema, in altre parole, deve dare un senso ad un mondo che, ormai – a causa del dilagante neo-capitalismo consumistico e omologante (colpevole di genocidio, avendo distrutto tutte quelle forme di civiltà comunitarie pre-capitalistiche caratterizzate da una sorta di “sacrale” rapporto con la Natura) – ha perduto qualsiasi senso, diventando di conseguenza “inespressivo”. Quel senso che Pasolini aveva cercato di rappresentare realizzando, nel 1969, il film Medea, con Maria Callas. Nello stesso anno, in un’intervista rilasciata al quotidiano francese Le Monde, Pasolini aveva così cercato di spiegare l’autentico significato di quel film e, in generale, della sua filmografia: “Io non posso concepire nulla che esuli dal sentimento del mistero. Non trovo mai naturale la natura. Per me i personaggi, gli oggetti e i paesaggi sono sempre antinaturali, cioè segreti”. Risulta chiaro, da queste parole, come Pasolini volesse contrapporre al concetto di “natura” elaborato dal pensiero borghese (un insieme di fenomeni basati su immutabili leggi causali e meccaniche, esprimibili con formule matematiche), una natura come luogo del mistero e del sacro.
Il cinema di Pasolini è, di conseguenza, un altro modo di essere della poesia, una poesia fatta di immagini e di musica, la quale musica è un altro degli elementi fondamentali delle opere pasoliniane, che non può in alcun modo essere sottovalutato: “La fonte musicale – che non è individuabile sullo schermo e nasce da un “altrove” fisico per sua natura “profondo” – sfonda le immagini piatte, o illusoriamente piatte, dello schermo, aprendole sulle profondità confuse e senza confini della vita” (Dalla copertina di un disco di Ennio Morricone Dimensioni sonore 9, RCA, 1972, testo di Pasolini).
Il cinema dell’ex giovane poeta di Casarsa che, sul piano tecnico, si può definire rivoluzionario, dal punto di vista dei contenuti, e delle storie che racconta, si volge al passato, alla tradizione, a tutte quelle forme di civiltà pre-capitalistiche e pre-occidentali segnate profondamente dallo spirito comunitario e, soprattutto, dalla presenza del sacro nella natura. Esso, quindi, riesce a conciliare la rivoluzione con la tradizione: “Solo la rivoluzione – scrive il regista rispondendo ad una lettera di un lettore del settimanale comunista Vie Nuove del 18 ottobre 1962 – può salvare la tradizione; solo i marxisti amano il passato. I borghesi non amano nulla, le loro affermazioni di amore per il passato sono semplicemente ciniche e sacrileghe: comunque, nel migliore dei casi, tale amore è decorativo o monumentale”, come diceva Schopenhauer, non certo storicistico, cioè reale e capace di nuova storia. Mi lasci amare Masaccio e Bach, e detestare la musica sperimentale e la pittura astratta”. E, in una delle Poesie mondane, aggiungeva: “Io sono una forza del passato,/ solo nella tradizione è il mio amore./ Vengo dai ruderi, dalle chiese,/ dalle pale d’altare, dai borghi/ abbandonati sugli Appennini o le Prealpi,/ dove sono vissuti i fratelli ….”. Versi, questi, che Pasolini farà pronunciare, più o meno negli stessi giorni di quell’anno fatidico, ad Orson Welles, da lui scelto come interprete nel ruolo del regista che, sul pratone dell’Acqua Santa, sta girando un episodio del film RO.GO.PA.G dal titolo “La Ricotta”; film destinato ad una storia giudiziaria molto complicata (sequestri, denunce per vilipendio della religione di Stato, condanna in primo grado, assoluzione in appello dopo, però, che il regista è stato costretto ad operare alcuni tagli e ad apportare modifiche pressoché irrilevanti) proprio a causa dell’episodio girato da Pasolini che, tuttavia, rimane uno dei vertici della sua produzione cinematografica.
Una forza del passato, dunque, quel passato che Pasolini sognava di far rivivere nella sua arte, e che, dopo averlo nostalgicamente evocato nelle sue poesie (anni quaranta e cinquanta), nei suoi romanzi ambientati nelle borgate (anni cinquanta), e dopo averlo rappresentato nelle immagini dei suoi primi film (da Accattone a Uccellacci e uccellini e Che cosa sono le nuvole?), e cominciando a dubitare sulla sua persistenza in Occidente, egli lo andò a cercare: in Marocco (Edipo Re); in una Colchide reinventata in Turchia e in Siria (Medea); nella Napoli medievale e sulla costiera amalfitana (Decameron); nelle città medievali e nelle abbazie inglesi (I racconti di Canterbury), nello Yemen, in Persia, in Nepal, in India (Il fiore delle Mille e una notte).
Gli ultimi tre film citati rappresentano quella Trilogia della vita alla quale egli abiurò con un famoso documento, scritto nel giugno 1975, durante le riprese del suo ultimo lungometraggio (Salò o le 120 giornate di Sodoma), ma pubblicato postumo, e che ha un titolo molto esplicito e diretto: “Abiura dalla trilogia della vita”. In questo testo, con sincerità e molta verosimiglianza, egli spiega il senso dell’intera sua opera, cinematografica e non, e spiega anche, tra le righe, l’angoscioso significato da lui attribuito a Salò, suo ultimo lavoro: “ … Io abiuro dalla Trilogia della vita, benché non mi penta di averla fatta. Non posso infatti negare la sincerità e le necessità che mi hanno spinto alla rappresentazione dei corpi e del loro simbolo culminante, il sesso. (…) Ora tutto si è rovesciato. Primo: la lotta progressista per la democratizzazione espressiva e per la liberalizzazione sessuale è stata brutalmente superata e vanificata dalla decisione del potere consumistico di concedere una vasta (quanto falsa) tolleranza. Secondo: anche la “realtà” dei corpi innocenti è stata violata, manipolata, manomessa dal potere consumistico: anzi, tale violenza sui corpi è diventato il dato più macroscopico della nuova epoca umana. Terzo: le vite sessuali private (come la mia) hanno subito il trauma sia della falsa tolleranza che della degradazione corporea, e ciò che nelle fantasie sessuali era dolore e gioia, è divenuto suicida delusione, informe accidia”.
E, subito dopo questa desolante e disperata confessione, che collega l’ultima sua opera cinematografica alla sua attività di polemista e di feroce critico della “mutazione antropologica” che egli denunciava attraverso i suoi articoli “corsari” sul Corriere della sera, Pasolini aggiunge parole crude e amare destinate a colpire la “nuova gioventù” plasmata dal “potere consumistico”: il regista afferma, infatti, di “odiare i corpi e gli organi sessuali (…) dei nuovi giovani e ragazzi italiani” che sono ridotti ad “immondizia umana”, a “schizzinosi, complessati, razzisti borghesucci di seconda serie”.
In queste parole è possibile cogliere il sentimento di orrore e di angoscia che accompagnò, nei suoi ultimi mesi di vita, l’intellettuale Pasolini, nonché l’oggettivazione artistica di questo sentimento, vale a dire la violenza brutale, la perversione, l’abiezione e la strumentalizzazione dei corpi, sparse a piene mani e “immagini” in un film che mette a dura prova la sensibilità, il pudore, la buona educazione e la capacità di sopportazione di qualsiasi spettatore e/o cinefilo; perfino coloro che si ritengono amanti e appassionati del cinema di Pasolini non riescono a rimanere indifferenti, a non provare un acuto senso di disagio, di fronte ad un film così “spaesante”, “imbarazzante” e a volte letteralmente “disgustoso” (nel senso non estetico, bensì fisiologico del termine), come “Salò o le 120 giornate di Sodoma”. Un film che rappresenta, come è stato scritto da vari critici, “il viaggio iniziatico della nuova gioventù”, un viaggio che passa attraverso riti e cerimoniali ossessivi, una progressiva degradazione e un perverso abbrutimento dei corpi, una totale accondiscendenza delle vittime alle perversioni dei potenti, e che si conclude con un’ecatombe di morti.
Ecco: dopo la Trilogia della vita, nella quale Pasolini aveva descritto ed esaltato il sesso come fonte di gioia e di liberazione, in Salò il sesso, manipolato e gestito da un potere assoluto e irresistibile che riduce tutto a consumo, diventa strumento di dominio, di disumanizzazione e di morte. Quella morte che, come evento minaccioso e incombente, o direttamente o indirettamente, aveva accompagnato l’intera esistenza di Pasolini, insinuandosi in quasi tutta la sua opera e che, subito dopo aver concluso la lavorazione del film, lo attendeva al varco, nella notte tra l’1 e il 2 novembre del 1975, in quello squallido spiazzo, ridotto a fango da una pioggia fredda e insistente, lungo la spiaggia dell’Idroscalo di Ostia.