La banalità della noia e della guerra
Gli spiriti dell’isola (The Banshees of Inisherin) scritto e diretto da Martin McDonagh con Colin Farrel e Blendan Gleeson
di Armando Lostaglio
“Che c’è di più duro d’una pietra e di più molle dell’acqua? Eppure la molle acqua scava la dura pietra.” Sovviene questo verso di Ovidio, dopo aver gustato un film scenicamente maestoso (effetto che solo la visione in sala sa offrire) e con due attori che sulla propria fisicità sanno fare da perno al tutto. E c’è l’isola chissà quanto immaginaria, di fronte all’Irlanda, che appare e gioca sulle luci verdi dei prati fino a sprofondare nelle granitiche rocce tormentate dal mare. “Gli spiriti dell’isola” di Martin McDonagh (The Banshees of Inisherin, così presentato a Venezia lo scorso settembre, dove ha vinto diversi premi, ed oggi ha ben nove candidature agli Oscar), è un accumulo di segni visivi e di metafore, a partire dalla vecchia “fata cattiva” (la benshee del titolo) che è lo spirito dell’isola come tradizione gotica include. La chiave di lettura sta in una amicizia che il fato o la noia vuole che si interrompa. Sono loro: Pàdraic giovane allevatore (un impagabile Colin Farrel) e il suo più anziano contraltare Colm, (Blendan Gleeson, incommensurabile) a giocare con la voce e la fisicità, fra movimenti interiori e quelli poco esteriori di singulti scomposti: lo spettatore si identifica in una equidistanza impercettibile. Quando vedemmo il film a Venezia ci chiedevamo della eccessiva potenza visiva ed interpretativa di questo capolavoro che in fondo, beckettianamente, tratta di una banale volontà di uscire dalle consuetudini o dalla noia dei rapporti quotidiani. Un amico che d’improvviso rifiuta l’altro, per motivi futili o per monotonia, e interrompe una normalità che in quel luogo remoto rimane eterna, senza sbocco. E c’è la guerra che lampeggia al di là della costa, la guerra civile irlandese del 1923; guerre che tutt’ora scoppiano qua e là: il geniale film di Martin McDonagh rappresenta una tragica metafora. Sarà nel profondo la banalità dell’odio, l’allontanamento di un amico che reputa noioso o, ancora, il dar corso alle esigenze della Storia che non si premura di conoscere le esigenze di ciascun uomo. Pàdraic e Colm danno corpo ed anima ad un rapporto che “deve” finire, nonostante le resistenze del giovane che non si rassegna a rinunciare alle serate insieme nel pub, aggregante ritrovo del villaggio, nel quale gli animali fanno da sostegno a un tempo mai liberato. Colm suona il violino, fino allo stremo delle dita che intende mozzarsi ogni qualvolta Pàdraic (questo è il ricatto) intenda riavvicinarsi a lui. Colm vorrebbe che la sua musica si tramandasse e magari fosse immortale, come lo è Mozart. E’ un rude, della gentilezza non vuole saperne perché Mozart, pensa, non era gentile ma un genio. Forse è qui la nevrosi di un uomo che sceglie l’autolesionismo all’apparenza della quotidianità. Ci conduce ad una riflessione l’eccellente regista irlandese (come i due protagonisti) verso l’idea di amicizia, su come possa estendere il proprio respiro fino a legare interi popoli nel mutuo legame che li rinsalda o su come eventi irragionevoli possano minarla, nella banalità dell’odio e della guerra.