RICEVIAMO DA REGISTA E VOLENTIERI PUBBLICHIAMO
LA FRECCIA DEL TEMPO
Un film di Carlo Sarti
La commedia del regista e sceneggiatore Carlo Sarti è una delicata indagine sui temi della temporalità soggettiva e di quella cosmica. Con essa rinnoviamo lo sguardo sul senso dell’esserci, come uomini al contempo conchiusi in un tempo storico e capaci di sbordarci sul mistero dell’eternità.
Testo di Alessia Vignali
Psicologa, psicoterapeuta, psicoanalista all’Istituto Erich Fromm di Bologna
“L’universo ha avuto un inizio? E se ha avuto un inizio, cosa c’era prima della sua nascita? Esisteva già il
passato, quindi il tempo? …O il tempo è comparso con la nascita dell’universo? Perché esiste il tempo?”.
Questi interrogativi, provenienti da una trasmissione televisiva, raggiungono il ventenne Raffaele e
risvegliano in lui una profonda curiosità: come “oggetto evocativo” capace di parlare al suo inconscio, lo
invitano a inaugurare un viaggio di ricerca.
Raffaele è in crisi ma non lo sa: non riesce a entrare nel tempo a lui assegnato, nel suo “progetto di sé”. E’
talmente a disagio nel gestire il tempo della sua vita che… per difendersi gioca al raddoppio: prova a vivere
due vite in una, quando lo troviamo alle prese con due lavori malissimo gestiti come l’”Arlecchino servo di
due padroni” del Goldoni. Di fatto, più che “servo di due padroni” è schiavo di se stesso: prendendo due
lavori, non se ne assume responsabilmente nemmeno uno. Tanto, “lui merita assai di più”… Cancella e nega
quel che vive mentre lo sta vivendo, “si porta attivamente altrove”, in uno stato opaco di semicosciente
dissociazione: dove sarà davvero mentre vive? Schiva così l’esperienza vera del lavoro, l’acquisizione di una
qualche abilità che lo renderebbe meno maldestro.
“Dimentica” poi lo scoccare del compleanno della sua ragazza salvandosi in corner, anche qui, con una
furberia: “ruba” il mazzo di fiori di un cliente sostituendo al biglietto il suo con gli auguri. Questo gesto
simpaticamente “antisociale” manifesta un’autostima bassa: solo “per finta”, solo “rubando ad altri” la sua
dedizione egli può presentarsi alla sua bella. Non ha la profonda fiducia in sé di chi sa di poter dare qualcosa
di suo all’altro.
Infine, non ottiene granché all’università.
Tra le mille procrastinazioni, la sua identità è rimasta soltanto abbozzata. Forse è talmente spaventato da ciò
che significa “diventare adulti” che preferisce star parcheggiato in un limbo d’onnipotenza in cui immagina di
poter essere e diventare ciò che vuole… è il tema delle identità fluide, tanto attuale. Crescere è invece
scegliere, tagliare, accettare d’avere limiti: scegliere uno o alcuni fra i tanti “sé” possibili. Poter fare il lutto,
dei mille “sé” possibili.
Il nostro progetto di noi, ciò che in fondo noi siamo, è fatto di tempo e di memoria: siamo un filo sospeso tra il
passato, anche quello “conosciuto non pensato”, e il futuro, in cui possiamo immaginare d’annettere sempre
nuove aree alla nostra espansione di noi stessi. L’insopportabilità della morte è tale perché lì non c’è più
espansione possibile, non c’è più riparazione ad alcunché, non c’è più conversione, ravvedimento,
esplorazione, scoperta, fondazione di mondi. Non possiamo più continuare nel nostro naturale trascenderci, i
nostri afflati e ideali non troveranno compimento. Quel che temiamo di più è proprio l’idea del “progetto
interrotto”.
Sentiamo allora la tristezza dei dinosauri e delle ammoniti presentati nelle deliziose animazioni che
inframezzano il film, quando pre-sentono la loro fine, una fine che sarà anche della discendenza e dell’intera
specie. Freud diceva che la nostra morte non trova rappresentazione in un inconscio che non ha per essa
immagini, dunque noi in realtà non possiamo, nel profondo, prendere atto che moriremo e non riusciamo a
crederci: nell’inconscio il tempo personale della vita è eterno e senza soluzioni di continuità. Melanie Klein ci
dice invece che, dato che “è a rischio di morte il nascimento”, l’angoscia di morte ci accompagna sin dalla
nascita. Entrambe le tesi possono esser considerate valide, cioè: mentre abbiamo bisogno di credere alla
nostra immortalità per continuare a vivere, l’angoscia più grande guida silenziosamente le nostre scelte,
talora in modo aberrante, talaltra -come suggeriva Heidegger con l’essere-per-la-morte- il pensarci
conferisce più sapore alla vita, ci sospinge a “vivere fino in fondo”, a progettarci sapendo che il tempo a
nostra disposizione è limitato.
L’adolescente, e così anche il nostro giovane Raffaele, incontra per la prima volta la morte: deve fare il lutto
dell’infanzia, abbandonare ogni certezza data dagli adulti e assumere sulle spalle il suo destino. Ciò che
dev’essere fatto è una traversata… L’angoscia di non farcela, quella di “morire” nel cammino è grande. Ciò
che morrà, in effetti, è il bambino che egli fu. Queste vicissitudini eterne trovavano rappresentazione nei
rituali di passaggio degli antichi, che erano a rischio di morte o ne mimavano il pericolo. Ci vuole un tempo
psichico lungo, insomma, per sconfiggere dentro di sé la morte che s’è incontrata: il tempo di bonaccia
(Winnicott) e moratoria dell’adolescenza, emblema di quell’irresolutezza data dalla paura.
Raffaele v’è ancora invischiato. L’interesse che muove le sue ricerche, che includono e sottendono la grande
domanda sul senso della sua stessa vita, ed è emblematizzato dalla cosmologia, oscilla costantemente tra la
voragine del tempo e la fuga nella contemplazione poetica della vertigine dell’eternità, in cui ogni tempo
s’annulla.
Come dargli torto, d’altra parte? Il suo rifiuto senza pensiero ha in sé un contenuto di difesa, addirittura di
preservazione della sua integrità. “Chi me lo fa fare, di entrar nella vita, se la vita è qualcosa di squallido
come quella che mi propongono gli adulti che mi stanno attorno?” Anche loro, in realtà, sono “desparecidi” o
vivono false vite di facciata in cui fingono di credere. La madre della sua ragazza, che vive attraverso le
vicende della figlia sempre criticandola, lamentandosi in continuazione anche dei tradimenti del marito ma
rimanendo lì, è inquietante nella sua passiva aggressività. Il signore che acquista il “Nome della rosa” dalla
“libraia maga” paga per fuggire al ruolo che pure si è scelto, di marito e padre di due figli. Il commesso
dell’hotel è truffaldino, l’insegnante marpione…
Solo una voce giunge in aiuto a Raffaele e sembra restituirgli qualcosa di vero, un “interesse”, che gli
rimanda una parte di lui in embrione. Come un “ritorno del rimosso”, la voce della trasmissione televisiva che
pone le domande su da dove veniamo, cosa sia il tempo, in che direzione ne vada la freccia, lo chiama a
confrontarsi, come ogni adolescente deve, con il tema della mortalità e di un’intera vita da spendere. La
freccia del tempo non può che andare avanti non solo perché c’è la legge dell’entropia, ma perché l’uomo è
mortale: dunque è bene che faccia i conti con il mistero del suo inizio e della sua fine.
Silenziosamente Raffaele li fa, i conti con la vita che dovrebbe attenderlo: anzitutto rifiuta prima in sordina,
poi optando per quella “vacanza dalla vita” che è l’acquisto del libro, le formule preconfezionate che lo
ingabbiano. Poi, si dà all’esperienza offerta dalla “maga libraia”, l’unica figura di adulto che lo guardi con
reale interesse e lo valorizzi, entrando in un “tempo altro” rispetto alla sua vita, quello della lettura, per
incontrare con amore un oggetto d’interesse, la cosmologia. Quest’ultima gli restituisce nel contempo il
godimento di sé e l’idea di avere dentro qualcosa di capace di accostarsi a ciò che è davvero “più grande di
tutto”. Solo nel godimento dell’oggetto (d’amore o di interesse vero), come direbbe lo psicoanalista Guido
Crocetti, si può incontrare il godimento di sé… dunque, nella cosmologia Raffaele può ritrovare l’amor
perduto per se stesso.
La soluzione pare un po’ “schizoide”, ma chissà: forse potrebbe fungere da volano per un inizio di percorso
d’individuazione. Il film infatti, dopo aver presentato solo adulti arrabbiati, avidi, succubi, presenta verso la
fine un personaggio positivo: è il professore incarnato da Pippo Del Bono, capace di porsi in maniera aperta
davanti ai ragazzi e apparentemente al loro servizio. Un uomo eccellente che ha la capacità di metter mano
al dogma, il “sacro intoccabile” – come dovrebbe fare ogni giovane – Darwin, per proporre qualcosa di
alternativo, di nuovo ma ereditato. Un professore che, come ogni “figlio” degno di un “padre” stimato, porti
nel mondo assieme un tradimento, un superamento, una vera celebrazione di Darwin. Quest’uomo ha
l’umiltà di porre la sua scoperta tra i dubbi e fa scegliere ai ragazzi la sua denominazione, in un atto di
dedica che testimonia l’amore per il futuro che essi rappresentano.
Il finale del film è dolceamaro: nonostante il contatto ritrovato con una parte autentica di sé capace di
domande vere, Raffaele non riesce ancora a portar nella vita l’amore per la cosmologia, che potrebbe far
fiorire cominciando a studiare davvero all’università e facendo del suo interesse una professione in cui dare
qualcosa di suo. Così, non sarebbe costretto a una fuga in un tempo altro. Così, il suo tempo di vita
verrebbe pienamente abitato. Si perde invece con la sua ragazza in mille fantasmagorie, nell’altra bolla
atemporale di una sessualità ancora deresponsabilizzata. Forse ci vuole ancora tempo, forse ha troppa
paura… o forse ha ancora bisogno di tornare dalla maga libraia. Chissà.
Attraverso l’epopea di uno dei nostri ragazzi, che spesso vivono come Raffaele una lunghissima “moratoria
psicosociale” dalla quale a volte rischiano di non uscire più, il film induce ciascuno di noi a trovare e a
ritrovare in sé quell’autenticità che ridoni significato al suo tempo di vita. E’ difficile mantenere l’integrità tra le
alienazioni di un mondo che tutto vuole che sperimentiamo, tranne ciò che più ci fa sentire vivi. Un mondo
per il quale siamo intercambiabili, come Raffaele per i suoi titolari. Nella “libraria maga” troviamo il
personaggio che comincia a rendere significativo il tempo di Raffaele: c’è in lui la curiosità di tornare da lei,
vederla e rivederla per confrontarcisi; si avvia un “ritmo” che comincia ad essere vissuto e cercato. La
temporalità di ognuno di noi, così come la possibilità di avere una mente con un suo mondo interno, si fonda
proprio sull’alternanza di presenze e assenze degli oggetti d’amore, quelli primari che fondarono la nostra
mente e quelli scelti lungo il percorso, testimoni di istanti o compagni di una vita. E’ la relazione d’amore a
fondare il tempo e la memoria, tutto il resto non ne è che un simbolo. “Fate questo in memoria di me”…
Anche il personaggio di Del Bono lavora, in fondo, in dedita e appassionata relazione con il “padre“ Darwin e
con i “figli” allievi, futuro dell’umanità.
Ma accanto al tempo ritmato dall’amore e su di esso fondato, quello che “per passione” sa sconfiggere la
morte, esiste un tempo a noi indifferente, quello cosmico e quello biologico. Perché in fondo la freccia del
tempo è irreversibile, per noi umani: siamo racchiusi tra il nulla che ci precede e la morte che ci attende.