ARIAFERMA, un film del 2021 di Leonardo Di Costanzo. Recensione di Stefano Valente

ARIAFERMA, un film del 2021 di Leonardo Di Costanzo.

 

Di Stefano Valente

 

 

 

Questo film che a tratti somiglia ad una specie di documentario d’autore (del resto Leonardo Di Costanzo documentarista lo è stato e lo è) racconta di un vecchio carcere di struttura ottocentesca (cosa – come vedremo – da non trascurare) in via di dismissione quando arriva l’ordine di sospendere il trasferimento dei detenuti e dodici di loro sono costretti per qualche tempo (non meglio definito) a restare chiusi lì insieme ad alcune guardie penitenziarie agli ordini di Gaetano Gargiulo (Toni Servillo). I dodici prigionieri sono concentrati nel corpo centrale della struttura che ricorda un antico panopticon, un sistema carcerario reso famoso dal saggio di M. Foucault “Sorvegliare e punite”. Il concetto alla base della sua progettazione è quello di permettere ad un unico sorvegliante di osservare tutti i detenuti senza permettere a questi ultimi di capire se siano in quel momento controllati oppure no. Ora il regista non si limita soltanto a fare più volte riferimento a questo “pan(tutto)opticon(osservare)” ma fa un evidente parallelismo tra questo tipo di struttura carceraria e l’occhio della macchina da presa che tutto vede senza essere a sua volta visto – come a dire che siamo tutti prigionieri delle inquadrature in cui si articola lo spazio claustrofobico del film.

Tuttavia il punto di vista del regista non sembra essere quello di un narratore dell’Ottocento cioè non è uno sguardo sopraelevato rispetto ai personaggi ma si dà – come dire? – alla loro stessa altezza. In fondo anche il regista insieme alla troup ed agli attori si è trovato recluso dentro un set che è una prigione.

La prima osservazione di rilievo concerne l’operazione di sospensione della logica carceraria che vige inevitabilmente in ogni penitenziario, sospensione messa in atto dal regista che consente a lui ed ai personaggi sulla scena di aprire inediti spazi di libertà. La dialettica che va sospesa è quella che intercorre tra detenuti e guardie carcerarie per cui inevitabilmente la guardia carceraria diventa prigioniera del prigioniero e il prigioniero diventa il carceriere del carceriere dando così l’avvio a dinamiche sado-masochistiche capaci di logorare e portare alla disperazione chiunque anche un incallito criminale, anche una onesta guardia carceraria.

Ebbene le contingenze hanno voluto che si creassero i presupposti per sospendere questa perversa dialettica e così rendere possibile lo svilupparsi di dinamiche relazionali non soffocate dall’opposizione carcerato-carceriere.

Al di là dell’opposizione tra buono e cattivo, tra onesto e criminale si possono cominciare a creare relazioni veramente umane.

Ecco la serie di contingenze che hanno reso possibile l’allentamento di questa dialettica mortifera e soffocante per aprire inediti spazi di libertà lì dove della libertà si viene privati: 1) la chiusura improvvisa del carcere; 2) l’esiguo numero di carcerati e guardie carcerarie; 3) il non funzionamento della cucina che porterà il detenuto Lagioia (interpretato da Silvio Orlando che insieme a Toni Servillo ha dato una convincente prova d’attore) a proporre di cucinare egli stesso per i detenuti così come per le guardie; 4) il caso del giovane carcerato che tenta il suicidio per cui nutrono simpatie sia Gargiulo che Lagioia; 5) il blackout che mette nelle condizioni sia i carcerati che i carcerieri di mangiare insieme al buio illuminati solo dalla flebile luce di alcune lampade; 6) la scoperta della comune provenienza dallo stesso quartiere di Napoli di Gargiulo e Lagioia… e qui mi fermo.

Quindi questa sospensione della dialettica carceraria è resa possibile da un progressivo sconfinamento rispetto ai diversi e stabili ruoli e la cena al buio nella notte (quando tutte le vacche sono nere – come diceva Hegel) è il momento culminante in cui vengono meno i ruoli e le regole per scoprirsi semplicemente uomini umani. È questo che progressivamente Lagioia vuole fare capire a Gargiulo, il suo carceriere; e cioè che seppur così diversi ad unirli è il comune fondo di umanità a cui tutti apparteniamo prima di distinguerci in guardie e ladri. Ma è questo che all’inizio Gargiulo non vuole accettare anche se nel profondo del suo cuore lo sa. Lui stesso farà un percorso: se prima tendeva a rimarcare (farisaicamente) la differenza tra lui e gente come Lagioia alla fine scoprirà che lo legava a Lagioia molto più di quello che lui avrebbe potuto mai immaginare: infatti il film si conclude con la scoperta da parte di Gargiulo di essere nato nello stesso quartiere di Lagioia – addirittura i loro rispettivi padri si conoscevano. Questa scoperta mette come un sigillo sulla storia raccontata dal film. L’aria non è più ferma, siamo lentamente ma progressivamente usciti dalla palude carceraria che abbiamo descritto all’inizio, siamo usciti dalle nostre prigioni (che altro sono i ruoli che recitiamo quotidianamente?) pur restando in carcere (quante persone carcerate dentro se stesse incontriamo sempre più di frequente?) per riconoscerci semplicemente uomini umani. Siamo usciti anche noi nell’orto adiacente ai muri del carcere (su cui si conclude il film) dove diventa possibile respirare finalmente aria buona, aria fresca.

 

 

STEFANO VALENTE