“Downton Abbey II – una nuova era”. A proposito di una soap-opera perfetta. Un film del 2022 diretto da Simon Curtis.
Di Stefano Valente
Il film descrive la vita di una nobile casata inglese, i Crawley, negli anni venti. Quella che in un romanzo di fine Ottocento o dei primi del Novecento sarebbe stata descritta come decadente famiglia in via di consumazione se non proprio in via di estinzione, invece in questo film – che è ben lungi dal raccontarci il declino di un mondo (quello dell’aristocrazia inglese) – ci viene presentata come dotata in tutti i suoi membri e componenti (nobili o appartenenti alla servitù) di una sorprendente vitalità che trova perfetta espressione nelle buone maniere aristocratiche che danno forma alle vite dei protagonisti senza imbrigliarle ed irrigidirle. Anzi questo comportamento rispettoso delle convenzioni e dei rituali che una certa nobiltà impone sembra dare luogo ad una vera e propria forma di vita: è come se il regista nel raccontare questa storia sospendesse il giudizio circa l’autenticità od inautenticità di questa forma di vita (aristocratica) per fare emergere i vari protagonisti (non solo i nobili ma i servitori stessi ed anche gli uomini della troupe cinematografica) come incredibilmente a loro agio nelle parti che recitano. Tutti rispettano le buone maniere ed il loro ruolo dando luogo a gesti e comportamenti all’apparenza artificiosi, a dialoghi manierati, ad espressioni artefatte, ad una recitazione che definirei “diplomatica” ovvero una recitazione eternamente sospesa tra vera cortesia e falsa accomodanza. Ma subito ci si accorge che questa apparenza non ha dietro di sé nulla. dietro alle buone maniere ed alle convenzioni non si nasconde un inferno di passioni od una grettezza d’animo: abbiamo a che fare proprio con una forma di vita e non semplicemente con una vita costretta dalle convenzioni sociali in una forma: in altri termini c’è qualcosa di vitale e dall’accento sincero nel modo di condurre l’esistenza a Downton Abbey. Certo ci viene descritta una vita tutta retta dalle convenzioni, da un certo protocollo eppure la vita in questa famiglia non è una falsità e non è condannata all’inautenticità. I Crawley hanno trasformato, hanno felicemente trasformato le convenzioni che regolano i loro rapporti (tra di loro, tra loro e la servitù e infine tra loro e la troupe cinematografica) in una specie di seconda natura dove il dramma dell’esistenza nonostante tutto non sembra toccare i protagonisti del film. Nonostante tutto, anche nonostante la morte – basti pensare alla dipartita di Lady Violet la quale ironizza anche nel momento della sua morte. Qui nemmeno la morte è capace di fare naufragare e frangere sugli scogli dell’esistenza cerimonie, convenzioni, ruoli, consuetudini sociali. Qui la morte – lungi dall’essere un momento epifanico in cui si manifesta un senso che irrompe all’improvviso squarciando il velo delle apparenze come nella morte di Ivan Ilic di Tolstoj oppure nei Dubliners di James Joyce – è completamente riassorbita dalla superficie in cui si specchiano i vari personaggi. La morte stessa non può apparire perché non è dell’ordine della rappresentazione (sociale: quella in cui tutti i personaggi recitano ognuno compreso nel suo ruolo senza farsi troppi problemi) ed è tutt’al piú un sassolino che cadendo in uno specchio d’acqua ne increspa solo per un momento la superficie per poi perdersi in un fondo irrappresentabile, abisso del quale tutti i personaggi del film non sospettano neanche l’esistenza e la profondità oppure davanti al quale si limitano ad alzare il sopracciglio.
Ora con l’arrivo della troupe cinematografica si apre un film nel film. Alcuni critici hanno a tal proposito parlato di metacinema. Dal nostro punto di vista è molto importante sottolineare il continuo passaggio non solo dalla realtà alla finzione e viceversa ma anche dalla finzione della realtà alla realtà della finzione e viceversa. Il film nel film serve a rivelare il regime finzionale (ma non per questo falso od inautentico) che già vige in casa Crawley: infatti tutta la vita della nobile famiglia è scandita dal rispetto sempre venato da ironia delle buone maniere, dei protocolli, delle convenzioni, delle apparenze, dei ruoli. Tutti i rapporti familiari tra nobili, servitù e regista, attori e personale della troupe sono caratterizzati da precisi codici di comportamento eppure l’impressione che di tutto questo se ne ha non è quella di una vita vera imbrigliata in una rete di finzioni, convenzioni e formule vuote ed inautentiche. Questi nobili non sono infatti tutti ingessati nei loro ruoli ma hanno un brio ed una freschezza o almeno così ci vengono presentati. Ci vengono descritti facendo apparire la loro esistenza come un qualcosa di vitale, una verace forma di vita. Tra vita e forma c’è una vera e propria coincidenza senza dialettica; qui non c’è vero dramma. Il film sembra un gigantesco episodio di una soap-opera o di una telenovela (a cui non a caso il film si ispira) dove non c’è dramma senza esserci nemmeno melodramma. A differenza del melodramma, dove i sentimenti vengono rappresentati, qui i sentimenti sono ciò di cui non bisogna nemmeno parlare se non continuamente ironizzando su di essi. Non si tratta di un dramma bensì di una commedia dove esistenza e senso sembrano coincidere e sotto o dietro alle forme non v’è nulla senza perciò che questo generi inquietudine. Nel film non v’è dialettica tra vita autentica e vita inautentica – tutto è superficiale senza essere solo per questo inautentico o formale. Le belle maniere sono un modo per sospendere questa dialettica così da non offendere nessuno. “Niente drammi, siamo inglesi” – sembra suggerire il film.
E allora altro che decadenza, il sottotitolo del film è molto eloquente al riguardo: “Downton Abbey II – una nuova era”. A differenza della nobile famiglia francese, che ospita in Costa azzurra alcuni dei Crawley per una questione di eredità – famiglia questa sì tutta irrigidita in forme stantie e false nonché segnata da un inelegante risentimento – qui invece a Dawnton Abbey il piano delle convenzioni sociali coincide col piano dell’esistenza e i vari personaggi si trovano a nuotare completamente a loro agio (tutti compresi nel loro ruolo senza scarti) a bagno in un lago placido e calmo che riflette fedelmente anche se in maniera quant’altre mai superficiale la loro immagine.
Una grande e nobile famiglia e la sua servitù: anche qui non c’è dialettica servo-padrone o lotta di classe: i servi sono servi devoti e sono loro i primi a credere nella veracità anche se superficiale che caratterizza l’esistenza dei loro nobili signori. È solo con l’arrivo della mentalità borghese ovvero è solo con l’arrivo della troupe cinematografica che si stabilisce una certa capacità dei servi di prendere le distanze dai signori che alla fine culminerà nella scena del pranzo, ultima parte del film da girare, dove saranno i servi ad indossare i panni dei signori in un momento anche questo lungi dall’essere drammatico, anzi da riuscire alquanto comico e carnevalesco: ci si scambiano i costumi ma i nobili restano nobili e i servi servi.
La troupe cinematografica porta invece in scena l’elemento borghese che lungi da invidiare i nobili e da essere invidiato dai servi mette un po’ in movimento le acque tranquille che bagnano l’esistenza dei Crawley. Più che di cinema nel cinema si tratta di mettere in scena il passaggio (non dialettico), il continuo transitato non solo tra realtà e finzione ma anche tra finzione della realtà e realtà della finzione. Ma l’operazione è ben lungi dal voler denunciare la vita convenzionale dei Crawley come falsa ed inautentica. Anzi, in verità nella vita di questi nobili realtà e finzione coincidono senza dramma né scandalo, senza inquietudine o particolare pathos. Assistiamo al passaggio dalla finzione della nobiltà (ciò che è proprio del film girato dalla troupe cinematografica) alla nobiltà della finzione (di cui è segno l’aristocratica che presta la sua voce per doppiare la star del film). Siamo in un momento di passaggio sottolineato in maniera un po’ esteriore dal passaggio appunto dal cinema muto al cinema sonoro.
Quello dei nobili non è un comportamento falso, menzognero, ipocrita… non ci viene presentato così, tutt’altro!! Quello che il film di Curtis sembra accettare e voler farci accettare è un certo regime finzionale non vero ma non per questo necessariamente falso. Il film raggiunge quel punto di magico equilibrio tra ironia e sentimentalismo e ha uno sguardo alla fin fine assolutorio nei confronti della vita di questa nobile famiglia che un severo censore potrebbe condannare come vacuo. Questo vuoto è raddoppiato dal vuoto del film girato dalla troupe ospite del nobile castello. Questa troupe rappresenta la borghesia produttrice del film e gli attori piccolo-borghesi che recitano o lavorano al film. Essi riescono a frapporsi tra nobili e servitù ma questo non mette in crisi né gli uni né gli altri anzi li riconferma nella loro complicità tanto che essi si possono scambiare i panni senza conseguenze se non quella di riconfermare i loro ruoli. Tant’è che saranno nobili e servi a salvare l’impresa borghese, il film, e non viceversa.
Quello che colpisce all’inizio è l’artificiosità dei dialoghi, dei modi, dei rapporti, tuttavia questa convenzionalità alla fine si rivela come una specie di seconda natura; una vacuità, quella descritta dal film, che è insieme il punto debole ed il punto forte del film. Questo film si presenta come una grande telenovela, una soap-opera perfetta dove ogni dramma è un falso e dove ogni falsità non è un dramma. Una soap-opera che si rapporta al mondo dando per scontato che il mondo abbia senso. Qui non si tratta di salvare le apparenze (come in ogni buon dramma borghese deve essere fatto) bensì sono proprio le apparenze a salvare l’esistenza dal rischio che essa abbia un senso e quindi anche dal rischio che essa non abbia senso. Anche di fronte alla morte i personaggi non si scompongono più di tanto. Tutti raccolti come una grande famiglia attorno al capezzale di Lady Violet sono in attesa del suo trapasso e di fronte a chi accenna un pianto la matriarca un momento prima di spirare invita al silenzio con ironia: “Non fate chiasso. Voglio sentire arrivare la morte”. Ecco la morte non può essere rappresentata né può essere detta se non con un’ultima ironia; può solo essere sentita; per questo può essere messa in scena solo fino ad un certo punto al contrario di tutto il resto. E così il morire è solo un momento subito riassorbito dalla superficie specchiante che riflette i volti e le storie di questa nobile famiglia. Infondo si tratta di un film snob nei confronti del senso e del nonsenso dell’esistenza: l’importante è non scomporsi nemmeno di fronte alla morte.
STEFANO VALENTE