Paisà – alcune brevi considerazioni su di un film di Roberto Rossellini. by Stefano Valente

Paisà – alcune brevi considerazioni su di un film di Roberto Rossellini.

by Stefano Valente

La cosa che più mi ha colpito di questo film è lo sguardo del regista. La telecamera non è mai né troppo vicina, né troppo lontana. Non si tratta né di un film epico, né di un film psicologico – è un film a misura d’uomo; anzi, è proprio l’uomo che fa irruzione non solo nella storia, ma anche sulla scena. Da questo punto di vista è paradigmatica la scena del soldato afro-americano che ubriaco fa irruzione sulla scena di un teatro di pupi. Lui a differenza dei burattini non è guidato per mezzo di fili da un occulto puparo, ma invadendo la scena della storia si ritrova dentro quest’ultima senza possibilità di chiamarsi fuori. La storia per Rossellini, come per tutti coloro i quali hanno vissuto sulla propria pelle gli orrori della seconda guerra mondiale e gli enormi disagi del dopoguerra, non è più qualcosa che si possa descrivere dal di fuori come se si trattasse di dipingere un grande affresco. Infatti non si dà più un luogo privilegiato da cui guardare alle vicende della storia senza esserne coinvolti in prima persona. Quindi anche lo sguardo del regista non può essere più uno sguardo di sorvolo; il suo film non può più essere una grande ricostruzione storica degli avvenimenti; il suo film non è e non può essere più un grande film storico in costume. La storia non la possiamo più descrivere dal di fuori perché vi stiamo dentro – nessuno escluso. Lo sguardo del regista, quindi, non è più uno sguardo sopraelevato o sovraordinato rispetto al piano degli avvenimenti narrati; egli non è più il narratore onnisciente dei grandi romanzi ottocenteschi – egli stesso è gettato nella storia. Ma in quale storia è gettato? In una storia dove gli uomini si ritrovano sul bordo del precipizio. La storia non è più in questo film di Rossellini un grande racconto capace di dare senso ad ogni realtà che di questo fa parte. Con l’immane tragedia della guerra rischia di venir meno quella fede nella storia e nel progresso continuo dell’umanità che aveva l’uomo ottocentesco. Ciò non significa tanto che ormai la storia non abbia più un senso (questo film di Rossellini è tutto fuorché compiaciutamente nichilista, anzi è pieno di speranza anche se di una speranza che non viene mai rappresentata); bensì vuol dire che non possiamo più guardare alla storia dall’esterno: la storia è la nostra storia o non è. L’uomo seppur disorientato (proprio perché ogni orizzonte sembra cadere a pezzi) non è più guidato dalla storia come se fosse un burattino in balia della necessità degli eventi. Il processo storico ha perso ormai definitivamente la sua necessità ed inesorabilità per cui si compiva non attraverso, ma nonostante l’uomo. L’uomo non è più un burattino nelle mani del destino, un destino inesorabile; ma è riconsegnato a se stesso ed alla sua libertà. Ora l’uomo è attore della (propria) storia. L’insensatezza della guerra e, quindi, l’insensatezza della storia rimette all’uomo il compito di dare senso – un compito sempre esposto al rischio del fallimento. E l’obiettivo della telecamera di Rossellini guarda a quest’uomo in quanto uomo senza oltrepassarlo, ma anche senza appiattirsi su di lui. Il suo è uno sguardo al pari degli altri o meglio: il suo sguardo non è uno sguardo sopraelevato, ma si dà allo stesso livello degli uomini rappresentati. Quindi né un film epico (anche se è abbastanza riconoscibile una certa coralità), né un film psicologico: non si dà oscillazione tra la componente oggettiva e quella soggettiva e forse questo è il segno della classicità di questo film – non, però, una classicità metastorica come quella propria alla cultura greca; bensì una classicità storica a tal punto che dovendo fare un paragone tra questo film di Rossellini ed un pittore subito ci viene in mente l’arte del grande Giotto (da questo punto di vista non è casuale il fatto che Rossellini stesso in seguito avrebbe girato un film proprio sulla figura di San Francesco). Questo lo diciamo non per sottolineare l’appartenenza di Rossellini o di Giotto ad un qualche genere artistico – infatti parlare di “realismo storico” o di “neo-realismo” in questi casi significa poco e niente. Qui l’uomo è a tal punto consegnato a se stesso di fronte a quella storia, in cui è gettato dentro, che non si può dare per lui redenzione se non dentro questo orizzonte: consapevole del rischio e del compito. A tal punto questo è vero che si possono rintracciare nel film precisi momenti in cui questa o quella idea di redenzione viene rifiutata – anche se questo non significa che non si dia possibilità di redenzione. Ma procediamo con ordine facendo solo alcuni esempi. Sullo sfondo della guerra e della sua insensatezza (uno sfondo fatto di macerie irricomponibili) la via degli affetti familiari ed amicali è la prima ad essere esclusa – ci riferiamo al primo episodio dove il rapporto umano tra il soldato Joe e Carmela viene brutalmente interrotto. Ma nemmeno l’amore come sentimento psicologicamente inteso è in grado di veramente redimere l’insensatezza della guerra – ci riferiamo al terzo episodio quando le illusioni romantiche di Francesca si rivelano per quello che sono: illusioni. Ma potremmo anche riferirci al quarto episodio dove l’amore vero, per cui Harriet sfida anche la morte, non riesce a vincere la morte e finisce tragicamente. Non sono l’amore e gli affetti capaci di dare senso all’immane tragedia della storia; ma nemmeno la fede può farlo. Il tono comico e canzonatorio con cui viene descritta la pace fuori della storia, in cui vivono e si rifugiano questi frati descritti volutamente in senso caricaturale, sta a dirci che di fronte ai drammi della storia nessuna redenzione di tipo trascendente può conferire un senso sovra-storico alla storia. Nessuna trascendenza è possibile e chi ad essa si affida di fronte agli imperativi della situazione storica non è altro che la caricatura di un uomo. La stessa figura di Dio è parodiata accostandola a quella di un puparo. Ma ormai l’uomo calca la scena della storia senza essere guidato dai fili sottili della provvidenza oppure del progresso storico: ecco che ancora una volta ci ritorna in mente la scena del secondo episodio di questo film. L’uomo è finalmente consegnato a se stesso, consapevole del fatto che ha lui è riconosciuta finalmente la responsabilità di fare la storia. Sembra dirci questo il finale del film: di fronte al fallimento della storia e del mito del progresso inarrestabile, a cui ci ha messo davanti la guerra con la sua immane distruzione, non resta che unirsi per cercare di lottare e costruire un mondo più a misura d’uomo. Ma questo mondo futuro non viene rappresentato nel film nemmeno nella forma di un ideale da raggiungere. Il fatto che la speranza non sia rappresentata non impedisce a noi che guardiamo il film di sentirla. Una speranza rappresentata sarebbe riuscita retorica o peggio: un’illusione. Di fronte all’immane tragedia della guerra rappresentare in immagine la speranza sarebbe riuscito falso e dolciastro – ma questo non significa che durante tutto il film lo spettatore non senta un sentimento di speranza che anima dall’interno tutto il film. In ciò sta il senso di una posizione etica prima ancora che estetica. Nel film di Rossellini non c’è nessuna estetizzazione della speranza: per questo la sentiamo profondamente come un appello ineludibile che vorremmo cercare di esprimere con le parole del poeta:

 

… nel restare

dentro l’inferno con marmorea

volontà di capirlo, è da cercare

la salvezza. Una società

destinata a perdersi è fatale

che si perda: una persona mai.