CINEMA
LA STRANEZZA: UN FILM CHE CELEBRA LA MAGIA DEL TEATRO E LA CONTINUA DIALETTICA TRA FINZIONE E REALTÀ
recensione di Francesco Sirleto
Visto (finalmente) ieri sera, nel cinema Caravaggio, insieme agli amici del Cinecircolo romano che, con questa opera, inaugura la stagione 2023-2024.
Dico subito che “La stranezza”, firmato dal regista Roberto Andò e interpretato da un superlativo Toni Servillo (nel ruolo di Luigi Pirandello) e dalla formidabile coppia “tragi-comica” Ficarra e Picone (nei ruoli di due becchini di professione ma, nello stesso tempo, attori dilettanti e animatori di una sgangherata filodrammatica paesana che mette sul palcoscenico di un piccolo teatro parrocchiale esilaranti farse piene di colpi di scena), è un film bellissimo, che merita i vari David di Donatello e tutti gli altri premi e riconoscimenti che, nel corso del 2023, gli sono stati attribuiti.
Inoltre ritengo meravigliosa e originalissima l’idea dalla quale scaturisce la vicenda da esso narrata: un viaggio (vero) di Pirandello che, nel 1920, ritorna in Sicilia per festeggiare l’ottantesimo compleanno dell’amico Giovanni Verga e che, per l’occasione, fa tappa a Girgenti (attuale Agrigento), sua città natale, e si imbatte (ma questo incontro è frutto dell’immaginazione del regista e degli sceneggiatori) in una coppia di strani e buffissimi becchini, attori dilettanti, in procinto di mettere in scena un dramma-farsa di ambientazione siciliana insieme ad un gruppo di altri aspiranti e improbabili attori ed attrici.
Il nocciolo della vicenda è in questo incontro tra un autore teatrale di fama internazionale come Pirandello e due piccoli teatranti di paese che, però, hanno il merito, grazie al loro lavoro, caratterizzato da una permanente confusione (nonché da continue intermittenze) tra finzione scenica e vita reale, di suggerire involontariamente al grande drammaturgo la soluzione di un problema che, da alcuni mesi, lo sta assillando in maniera angosciosa. Il problema è costituito dalla stesura di un nuovo dramma al quale, nonostante gli sforzi, non riesce ad offrire alcuna accettabile soluzione, tanto che sono gli stessi personaggi immaginari del dramma a tormentarlo con le loro continue apparizioni e incessanti richieste.
Ed è proprio assistendo, in incognito, allo svolgimento del dramma-farsa architettato e messo in scena dalla strana coppia di becchini – un’opera che annulla la distanza tra palcoscenico e platea e alla quale partecipano, da protagonisti, gli stessi spettatori – che Pirandello riesce a trovare la chiave per risolvere il suo personale problema e per condurre in porto la stesura della sua opera più celebre, un testo quasi rivoluzionario: “Sei personaggi in cerca d’autore”.
La parte finale del film, infatti, si svolge non più in Sicilia ma a Roma, ed è rappresentata dalla fedele descrizione del gravissimo insuccesso e delle feroci polemiche che, il 9 maggio 1921, accolsero la prima, al teatro Valle, dei “Sei personaggi”. Un testo che, già a partire dal 1923, era destinato ad uno straordinario successo mondiale e ad essere rappresentato nei maggiori teatri delle principali città e capitali al di qua e al di là dell’oceano, e che valse al suo autore il premio Nobel 1934 per la letteratura – nella prima del 1921 al Valle fu subissato dai fischi e dalle proteste, scatenando una rissa tra detrattori e ammiratori di Pirandello.
In fondo, il senso tanto del film (che possiamo considerare un atto d’amore nei confronti del teatro e di coloro che lo tengono ancora in vita) quanto dell’opera pirandelliana (tutta l’opera, non solo i “Sei personaggi”), lo spettatore attento può rinvenirlo nelle parole che il vecchio Giovanni Verga rivolge a Pirandello durante l’immaginario colloquio (un piccolo capolavoro di Andò) tra i due grandi scrittori siciliani. Dice infatti Verga (interpretato da un sempre bravissimo Renato Carpentieri) a Pirandello: “Caro Luigi, noi (io e gli altri narratori ottocenteschi) ci siamo sforzati di riprodurre fedelmente, nei suoi più piccoli particolari, la realtà; tu, invece, con il tuo teatro, hai messo una bomba sotto questa realtà, facendola esplodere in mille pezzi”.
Un film, questo, che considero senz’altro il migliore di Andò, da non perdere assolutamente, da vedere e rivedere, e non solo per il suo significato filosofico intrinseco (la dialettica del continuo e reciproco rovesciamento di realtà e finzione), ma anche per i suoi indubbi valori estetici: la recitazione, la trama, i costumi, il linguaggio (una stupenda commistione di lingua letteraria e dialetto ultra-popolare), le scene, la fotografia, la colonna sonora.