Death Race
Genere: azione
Nazione: USA
Anno produzione: 2008
Durata: 100’
Regia: Paul W. S. Anderson
Cast: Jason Statham, Joan Allen, Tyrese Gibson, Ian McShane, Natalie Martinez, Jason Clarke, Jacob Vargas, Robert Lasardo, Max Ryan, Janaya Stephens, Frederick Koehler
Produzione: Cruise/Wagner Productions, Impact Pictures
Sceneggiatura: Paul W. S. Anderson
Quando lo show è la morte
Terminal Island, prossimo futuro. La voglia di sport estremi e di gare dal vivo si è trasformata in un sanguinoso reality show. Ormai le corse di auto le fanno dei temibili galeotti senza più nulla da perdere, se non la propria vita. Questo è il Death Race, e le regole sono semplici: vinci cinque volte e sei libero; perdi e sei destinato a una morte in diretta.
Il tre volte campione di gare ad alta velocità Jensne Ames (Jason Statham), incarcerato senza colpa, è costretto a indossare la maschera del mitico guidatore Frankenstein, il più gran campione di questo folle sport, il quale resta ucciso proprio durante la corsa che gli avrebbe consegnato la sospirata quinta vittoria, quindi la libertà. Frankenstein è un “mito” e lo spettacolo deve comunque continuare. Con la faccia nascosta dalla maschera che fu del defunto campione, Ames inizia una assurda sfida di tre giorni per guadagnarsi la libertà e poter così finalmente riabbracciare la figlia.
Donne, macchine e tanta banalità
Con Death Race Paul W. S. Anderson cambia l’assetto del film d’azione per adattarlo a un prison movie che, quando non si concentra sulle spettacolari peripezie automobilistiche, vero punto di interesse della pellicola, procede a passo d’uomo lungo il cortile del penitenziario, attraverso i suoi corridoi fino all’ufficio della Direttrice, cinica “regista” della gara e giudice supremo della vita o della morte dei piloti-detenuti.
Un film che ripropone in modo eccessivamente banale lo stereotipo del carcerato innocente che lotta per evadere e che ha come maggior rivale il Direttore del penitenziario. L’opera è praticamente il remake di Anno 2000. La corsa della morte (1975), per la regia di Paul Bartel, e non aggiunge nulla all’originale, anzi forse si perde in una struttura troppo simile a quella di un videogioco. Difatti, tutta la storia sembra un susseguirsi di espedienti per mostrare macchine simili a dei carri armati, con all’interno delle irreali carcerate, che ricordano un po’ troppo delle playmate.
L’unico punto di interesse di questo film di bassa consistenza si trova nella critica, un po’ timida, ma pur sempre lodevole, verso il modello di società occidentale, basato sulla spettacolarizzazione dei drammi e dove ormai la televisione è andata ben oltre il proprio ruolo di medium di intrattenimento di massa.
Riccardo Rosati