C’era una volta in Bhutan (“The Monk and the Gun”)
Regno del Bhutan, la modernizzazione è inesorabilmente arrivata pure in questo remoto angolo di Oriente. Il Paese, incastonato tra i due grandi colossi dell’Asia (Cina e India), è stato l’ultimo al mondo a connettersi a Internet e a fare entrare la televisione nelle case di quei pochi che possono permettersela, e ora è la volta del cambiamento più importante di tutti: il passaggio dalla monarchia alla democrazia.
Per insegnare alla Popolazione a votare, le autorità allestiscono una finta elezione, ma non pochi abitanti sembrano scarsamente convinti della cosa, quando addirittura non stentano a comprenderla. In viaggio nelle zone rurali del Bhutan, dove la religione è più popolare della politica, un supervisore elettorale scopre che un anziano Lama sta organizzando una misteriosa cerimonia per il giorno delle elezioni ed è alla ricerca di un’arma; si tratterà forse di un plateale atto di protesta?
Nel Marzo 2008, il Bhutan ha celebrato la sua prima chiamata alle urne, divenendo in tal modo la più giovane democrazia del pianeta. Sino ad allora, questa Nazione intrisa di Buddhismo Tibetano (o Vajrayāna) era rimasta praticamente incontaminata dai cambiamenti, non solo tecnologici, del ’900, tanto che la celeberrima bibita Coca Cola veniva chiamata: “acqua nera”! Le genti dei vari villaggi vivono in modo frugale, senza quello che a noi parrebbe essenziale; eppure mantengono una forte dignità e sembrano non aver bisogno di alcuna novità, a loro va bene così e non ne fanno mistero. Nondimeno, la Globalizzazione non lascia scampo. Ragion per cui, è giunto anche per il Bhutan il momento di abbandonare la spiritualità, per aprirsi alla conflittualità del dialogo democratico, proprio quando quest’ultimo pare avere in Occidente dimostrato i suoi esiziali limiti.
Pawo Choyning Dorji firma una pellicola sorprendentemente girata molto bene, se si considera la ridotta storia della filmografia del suo Paese. Certo, una camera fissa pressoché ininterrotta concede poco spazio a sperimentazioni di sorta. Purtuttavia, trattasi comunque di un film formalmente preciso, scritto con cura e, aspetto assai più rilevante, con un messaggio intelligente, il quale non si riduce al banale dualismo sintetizzato nell’antitesi di Tradizione contro modernità. Tramite un utilizzo sapiente dei dialoghi e delle ambientazioni, viene trasmesso in modo verosimile lo stile di vita della popolazione bhutanese, in un racconto corale che sta poi a indicare quel senso di unità smarrito da una buona parte del resto della Umanità.
Di primo acchito, la cinica prospettiva dell’“uomo tecnologizzato” potrebbe giudicare tanta purezza come fasulla, frutto di una trama che strizza l’occhio ai facili sentimentalismi. È mai pensabile che nel XXI secolo esistano ancora collettività prive di rancore e di attaccamento al denaro? La risposta è sì. La storia in questione ha effettivamente il sapore della verità, ed è forse per tale cagione che molti potrebbero sentirsi magari non proprio a disagio, ma almeno scettici sulla sua autenticità. Del resto, sul relativismo che impera un po’ ovunque non vi è quasi più nulla da fare. Ecco perché una opera come questa può lasciare in quei pochi che hanno ancora il dono del dubbio lo spazio per una domanda: stiamo noi vivendo nel modo corretto?
In sintesi, possiamo considerare C’era una volta in Bhutan come una pellicola assolutamente gradevole: per l’occhio, in virtù degli stupendi paesaggi ripresi in numerose scene; per l’animo, poiché riporta con naturalezza e senza pretese di complessità a una fugace condizione di pace interiore. “Siamo sempre stati felici”, così afferma una delle donne del villaggio di Ura ove è ambientata la vicenda narrata, esprimendo con queste semplici parole la sua innocente perplessità sul perché dover alterare uno status esistenziale che è già di suo armonico. Alla fine la sedicente democrazia avrà pure vinto anche in quel lembo recondito di Oriente, però lì il “modello unico” non è gradito. Infatti, il solo elemento negativo della storia è rappresentato dal solito supponente americano che arriva per fare i suoi traffici, convinto che con i soldi e le pressioni si possa sempre ottenere quello che si vuole. Peccato che il regista bhutanese non la pensi punto così, e infranga il tanto osannato stereotipo del businessman, facendo fare allo statunitense la figura dell’allocco e rispedendolo a casa con la coda tra le gambe.
Riccardo Rosati