Cenni di Storia del Cinema
Il Codice Hays che condizionò Hollywood
di Armando Lostaglio
“Non sarà prodotto nessun film che abbassi gli standard morali degli spettatori. Per questo motivo la simpatia del pubblico non dovrà mai essere indirizzata verso il crimine, i comportamenti devianti, il male o il peccato. Saranno presentati solo standard di vita corretti, con le sole limitazioni necessarie al dramma e all’intrattenimento. La Legge, naturale, divina o umana, non sarà mai messa in ridicolo, né sarà mai sollecitata la simpatia dello spettatore per la sua violazione.” Sono solo i principi basilari del Codice Hays che proprio in questa primavera compie i suoi novant’anni da quando venne divulgato negli Stati Uniti. Si trattava di una rigida autoregolamentazione sottoscritta dalla Associazione dei Produttori americani e specificava cosa fosse o non fosse considerato “moralmente accettabile” nella produzione dei film. E così gli studios hollywoodiani fecero uscire in tutta fretta i loro ultimi film realizzati prima della definitiva entrata in vigore del Codice. A giovarsi di quello che definirono un ultimo scampolo di libertà, si contano una decina di film o poco più: tra questi Belle of the nineties di Leo McCarey, scritto ed interpretato dalla sconvolgente Mae West: in una sequenza l’attrice guarda in macchina, buca la quarta parete; Bergman venti anni dopo riprenderà la scelta stilistica in Monica e il desiderio. Altro film che non arriverà mai da noi è Born to be bad di Lowell Cherman: Loretta Young interpreta una escort che è anche ragazza madre: scandalo. Da noi vigevano i veti anti hollywoodiani di papa Pio XI e pertanto tali film non arrivarono mai. Arrivò solo una commedia romantica Educande d’America di Georges Nicholls jr. e Wanda Tuchock che riuscì a riempire le platee: un film apparentemente “spinto” nel quale si racconta la fuga dal college di Frances Dee e Ginger Rogers verso una luminosa e tentatrice New York. In America siamo nel periodo che ancora risente della grande Depressione e del Proibizionismo: il cinema ne riflette una realtà ansiosa e comunque vocata ad una sommessa ribellione. Nei tre anni prima del Codice Hays lo schermo rifletteva storie di prostituzione, di corruzione del mondo politico e della polizia, talvolta gangster e sparatorie. Eppure in nuce si alludeva ad una certa sessualità femminile nei prodromi di una emancipazione dei costumi. Non soltanto libertà di evidenziare i piaceri di una vita sregolata, quanto mostrare una innovativa visione del mondo, magari più attinente alla cronaca, non senza elementi che potessero alludere a movimenti sovversivi. Su questo fiuto, in quegli anni si mossero dall’Europa autori come Luis Bunuel e Eizenstein. La Motion Picture Producers and Distributors of America adottò il Codice Hays nel 1930, iniziando però ad applicarlo nel 1934, e lo abbandonò solo nel 1968 a favore del successivo MPAA film rating system. Ma chi era Hays? L’avvocato William Harrison Hays era stato un decennio prima collaboratore del presidente repubblicano Warren Harding. In una sorta di elogio del censore, si spingono Francis Bordat e Frédéric Cavé, scrittori francesi, nel loro libro Le code: danno conto dell’operato di Hays anche a favore di una politica produttiva che impedì film che alludessero al razzismo violento di Ku Klux Klan; che pur proibendo nudità, droga e violenza, sollecitò linguaggi innovativi per ellissi e metafore: vengono citati fra i grandi maestri come Hitchcock e Lubitsch. Ma venne purtroppo sacrificata la creatività di sceneggiatrici emancipate come Kathryn Scola (di padre napoletano) o Anita Loos, che dovettero “smussare” le loro preziose sceneggiature.