Il mistero scorre sul fiume, recensione di Riccardo Rosati

 

Il mistero scorre sul fiume

 

Cina, 1995, villaggio di Banpo, nella centrale Provincia dello Shaanxi. Il corpo di una anziana donna viene ritrovato in riva al fiume. Ma Zhe (Capitano della locale polizia criminale) dirige le indagini sull’omicidio che portano rapidamente a un “ovvio arresto”. Mentre i suoi superiori sono ansiosi di sbandierare agli organi politici il loro successo, diversi indizi spingono Ma a scavare più a fondo negli strani comportamenti di alcuni concittadini, cosa che lo induce sempre più a dubitare del fatto che la Giustizia abbia veramente seguito il suo corso.

 

Wei Shujun (classe 1991) è un giovane autore con pochi titoli alle spalle e questo suo essere “acerbo” si manifesta all’occhio del critico anche nella sua ultima opera. In effetti, Il mistero scorre sul fiume (河边的错误, “Hébiānde cuòwù”) – incluso nella sezione Un Certain Regard della 76° edizione del Festival di Cannes – è una pellicola assai ostica da valutare, che mette in difficoltà persino lo spettatore più avveduto, non assolvendo sotto tale profilo alla naturale vocazione della Settima Arte.

 

Diciamo subito che il film non è del tutto riuscito: troppo è sottaciuto, personaggi appena abbozzati e una trama, benché sdoganata attraverso l’escamotage dell’indagine poliziesca, apparentemente senza un senso; a meno che … già, a meno che non si intuisca che è necessario andare al di là della mera analisi specialistica e capire la vera ragione di questo esperimento filmico, che purtuttavia ci lascia nella ferma convinzione che ben pochi lo andranno a vedere, poiché si esce dalla sala con enormi interrogativi sul cosa si sia appena avuto modo di guardare; pertanto la pellicola non godrà di una pubblicità benevola.

 

Il regista ha dichiarato che per lui questa è stata una preziosa occasione per sviluppare una storia all’interno di un film di genere, potendo poi basarsi su una fonte letteraria di qualità; ossia, il racconto omonimo del 1992 dello scrittore cinese di successo Yu Hua. L’adattamento (una versione cinematografica e non una trasposizione, cfr. Riccardo Rosati, La trasposizione cinematografica di Heart of Darkness, Brescia, Starrylink, 2004), secondo quanto sostiene Wei, ha mantenuto diversi aspetti originali: innanzitutto la vicenda riguardante una serie di omicidi, narrata nello stile letterario degli anni ’90, la quale porta con sé temi molto attuali in quell’epoca, come il peso eccessivo dello spirito collettivo gravante sull’individuo e la drammatica solitudine di quest’ultimo di fronte a un mondo assurdo. Una cosa è certa, chi interpreta la pellicola limitandosi a ricondurla al genere poliziesco cade in errore, giudicando il contenitore e ignorando il contenuto: la risoluzione del mistero è un elemento qui a dir poco secondario dell’intreccio, quando non un mero pretesto.

 

La maggior parte dei cinesi di allora credeva in una certa supremazia del gruppo, per cui la autocoscienza o la espressione di sentimenti individuali non veniva accettata come naturale, essendo per contro osteggiata nella ideologia di partito sottesa a ogni singola forma organizzativa dello Stato. Del resto, Wei ha voluto mettere in evidenza gli individui, però soltanto due, Ma e la giovane moglie incinta, i quali, con uno sforzo unitario, riescono a lacerare la ipocrita patina propagandistica, vedendo la situazione per quella che è, un contesto illusorio e menzognero; non per niente, in una riuscita metafora del regista, gli uffici della polizia sono posizionati sul palcoscenico di un vecchio e dismesso teatro.

 

Torniamo alle fatali, seppur forse comprensibili, debolezze della pellicola, che risultano ancor più sconcertanti se si considera l’abilità dimostrata dal cineasta. Invero, Il mistero scorre sul fiume non difetta assolutamente nella forma: la fotografia è elegante e precisa, con quei toni monocromatici e uggiosi che caratterizzavano la Cina del tempo, lontana dalla rinascita economica del 2000. Il ritmo serafico della narrazione risulta gradevolmente “letargico” e i costumi sono praticamente perfetti; pare davvero di assistere a un film girato negli anni ’90 e non nel 2023. La consistenza stessa della pellicola contribuisce a creare quel senso di autenticità tanto agognato dal regista, al quale va il merito dell’acuta decisione di riprendere il vecchio formato in celluloide in 16 mm, spesso utilizzato per le produzioni amatoriali, con il risultato di conferire ulteriore senso di squallore e disagio alle immagini. D’altronde, quella Cina era realmente squallida e povera. Oggi, almeno nelle metropoli, la situazione è diversa, benché pur sempre incomparabile con quello che fu il cosiddetto Celeste Impero, di cui non vi è quasi traccia per via di ciò che sogliamo definire la “Cesura Maoista”.

 

“Quello che volevo mostrare è che il destino si prende gioco delle persone: più cerchiamo di scoprire in profondità il significato della vita, più è probabile che lo mancheremo”, così ha affermato Wei Shujun in una intervista in merito a questa sua ultima fatica, confermando la enigmaticità di un film che non funziona affatto. Nondimeno, se prendessimo in considerazione la possibilità che tali mancanze siano state volute, onde beffare le maglie della censura di Pechino, ecco che la esegesi dell’opera prende tutta un’altra pista e quei limiti trasmutano in  piccoli spunti geniali.

 

Insomma, in una Cina dove a nessuno importa della verità, e conta semplicemente soddisfare i programmi trionfalistici del Potere, trovare il colpevole ha scarsa rilevanza. Ciascuno è nulla e nulla conta, e non ha qualcosa di effettivamente proprio da offrire. Rimangono Ma e la sua sposa, gli unici capaci di accorgersi dell’inganno collettivo in atto e che alla fine tengono quel bambino “scomodo” per il sistema, decretando la vittoria dell’individuo; una scelta personale, specialmente della donna, in opposizione a un conformismo culturale opprimente e distorsivo. Il messaggio si manifesta quindi paradossalmente semplice: in una dittatura, la prima vittima è la realtà.

Riccardo Rosati

 

* Un sentito ringraziamento alla collega sinologa Annarita Mavelli per gli utili suggerimenti.