LA POESIA E LA SOLITUDINE DI UN’ANIMA SEMPLICE NELL’ANOMIA STRANIANTE DELLA MEGALOPOLI. PERFECT DAYS, di Wim Wenders, un film dedicato a tutti coloro che non rinunciano all’umanità. di Francesco Sirleto

LA POESIA E LA SOLITUDINE DI UN’ANIMA SEMPLICE NELL’ANOMIA STRANIANTE DELLA MEGALOPOLI.
PERFECT DAYS, di Wim Wenders, un film dedicato a tutti coloro che non rinunciano all’umanità.
di Francesco Sirleto
L’ultimo film (del 2023, premiato a Cannes, ma sono riuscito a vederlo solo ieri sera, al cinema Caravaggio, insieme agli amici del Cinecircolo romano) dell’inossidabile regista tedesco Wim Wenders è un’opera nella quale i protagonisti, o meglio gli antagonisti, sono due: un uomo che conduce un’esistenza caratterizzata dalla più rigorosa ed “eroica” solitudine; una città abnorme, una megalopoli che si estende quasi all’infinito in orizzontale e in verticale, un mostruoso e gigantesco ordigno del tutto indifferente alle sorti dei milioni di individui che la popolano e che, soprattutto, sono al suo servizio.
Tra questi milioni di minuscoli esseri che si muovono incessantemente giorno e notte per alimentare, con il loro lavoro alienato, stressante e disumanizzante l’immenso Gulliver urbano, ve ne è almeno uno, il sessantenne Hirayama (la storia è ambientata nella megalopoli Tokyo, capitale del Giappone), che presenta aspetti del tutto particolari. È un lavoratore umilissimo, che si guadagna la vita pulendo coscienziosamente, per conto di una ditta di pulizie, i bagni pubblici che si incontrano sui marciapiedi, all’interno dei parchi, nelle scuole, negli edifici dell’Amministrazione. Vive solo, perché privo di famiglia, in una “casa” piccolissima, angusta, nella quale non vi è neppure il bagno, tant’è che è costretto, per I suoi bisogni e per lavarsi, a usare le moderne “terme” che il Comune mette a disposizione dei senzatetto. Una casa nella quale, però, riesce a far entrare, ordinatamente disposti, centinaia di libri e di musicassette che risalgono agli anni sessanta-settanta e dalle quali ascolta l’amata musica di quell’epoca. La poesia e la musica, passioni che, insieme al giardinaggio, egli coltiva nei pochi ritagli di tempo (soprattutto nelle ore notturne) che la lunga e pesante giornata di lavoro gli concede, consentono ad Hirayama di conservare un animo mite, aperto nei confronti della quasi invisibile e soffocata natura, e disponibile ad aiutare chiunque si trovi in difficoltà. Hirayama è una sorta di monaco (buddista) laico, oppure di saggio stoico o spinoziano. Si accontenta del poco che possiede, e a volte quel poco lo mette a disposizione degli altri (come nell’episodio dell’ospitalità offerta alla nipote Niko, scappata da casa). È anche un sognatore, e nei suoi sogni appaiono immagini e scene di un mondo “altro”.
Hirayama trascorre le sue giornate, “giorni perfetti”, all’insegna dell’inesauribile ripetibilità dei medesimi gesti, delle medesime azioni, senza tuttavia cadere nell’angoscia dell’alienazione indotta dal ritmo e dalla sovrumana indifferenza della megalopoli. Rimane, nonostante tutto, un uomo in possesso della sua umanità, unico strumento che consenta, a lui e a chiunque, di non partecipare al “bellum omnium contra omnes” che si consuma quotidianamente lungo le strade, nei grattacieli, nei sotterranei e negli oscuri meandri della megalopoli.
Un film molto bello, questo Perfect Days (ultima fatica di un grande Maestro che ha fatto del cinema un potente mezzo di educazione e di comprensione tra individui e collettività, nel contempo “così vicini, così lontani”), dai toni crepuscolari, esaltati da una recitazione (ottima prova attoriale quella di Koji Yakusho, nei panni del protagonista) nella quale prevalgono, sulle parole, le pause e i silenzi. Splendide la sceneggiatura e la fotografia; struggente la colonna sonora.