Parthenope, di Paolo Sorrentino, recensione di Riccardo Rosati

 

 Parthenope

 

di Paolo Sorrentino

 

La cinematografia è anche conosciuta come la Settima Arte, e quindi possiede il sublime, ma parimenti le asperità interpretative delle altre espressioni della creatività umana. L’arte, quella vera, si distingue per essere il frutto dell’opera di un artista/autore. Ragion per cui, tali figure sono rintracciabili pure nel cinema, il quale, soffrendo da decenni di quella che potremmo definire: “banalizzazione hollywoodiana”, ha finito per imbarbarire in modo pressoché insanabile i gusti del pubblico e, aspetto ancor più esiziale, della critica di settore. Nondimeno, se si mantengono saldi princìpi e metodologia degli studi filmici di stampo tradizionale, ecco che non è difficile considerare Paolo Sorrentino non semplicemente un valente regista, bensì un autore; che possa piacere o meno è questione di sensibilità individuale, ma comunque un autore, e nell’odierno panorama cinematografico se ne possono sfortunatamente contare pochi.

Per questo motivo, il suo ultimo film Parthenope (2024) ha riscosso opinioni sia favorevoli che contrarie, benché nel secondo caso, invece di  affrontare una ineludibile, se si vuole sposare una prospettiva analitica seria, interpretazione della pellicola, si sono lette le solite e stantie osservazioni polemiche verso il cineasta napoletano, tanto fallaci che non vale nemmeno la pena qui riportarle. Dal canto nostro, offriremo una lettura dell’opera, alla luce di una esegesi filmica inserita nella più vasta poetica del regista.

 

Il film – presentato in anteprima mondiale il 21 maggio 2024 durante la 77° edizione Festival di Cannes, dove era in concorso per la Palma d’Oro – narra la vita di Parthenope, ammiccando alla leggenda greca sulla omonima sirena e “mitica” fondatrice di Neapolis (antico nome di Napoli) e da cui deriva l’aggettivo “partenopeo”. La storia si sviluppa in un periodo compreso tra il 1950, anno della nascita della ragazza, arrivando ai giorni nostri, mostrando la crescita sentimentale di quella che si rivelerà essere una donna dalla “bellezza disturbante”. A tal proposito, va rivolto un plauso a Sorrentino per aver affidato una parte così intensa e impegnativa a Celeste Dalla Porta, praticamente una esordiente. Una scommessa pienamente vinta, anche se, a onor del vero, l’attrice è di suo sì assai avvenente, ma non così tanto come appare sullo schermo in sala.

 

Napoli e disincanto

Di primo acchito, la vicenda si potrebbe riassumere come un incessante riverberarsi di sensualità, alla insegna della giovinezza, del mare e del Sole, con continui dialoghi pieni di significato, quasi una collazione di aforismi potremmo dire, a metà tra un nichilismo nietzschiano e il cinismo tipico dell’umorismo napoletano. Se dovessimo fornire una analisi siffatta, avremmo forse svolto il compito di critici, ma non quello di studiosi cinema, basando la nostra valutazione sul semplice gusto personale, senza inquadrare l’opera in oggetto in un contesto più ampio, accontentandosi sostanzialmente di giudicare se si parla o meno di un buon film. Su tale superficiale aspetto, Parthenope è un ottimo lavoro, sia da un punto di vista formale che contenutistico. La domanda da porsi è però la seguente: sulla pellicola di Sorrentino è possibile dire di più? Riteniamo assolutamente di sì.

 

Innanzitutto, ritorna, quando il cineasta parla della sua città, l’incentrare la storia all’interno della borghesia napoletana, anche perché egli necessita, per soddisfare la sofisticatezza che gli è propria, di personaggi che abbiano un certo respiro intellettuale. In effetti, ci sono delle costanti ricorrenti nei suoi film, come, ad esempio, il momento della “tirata esistenzialista”; memorabile rimane quella di Jep Gambardella rivolta alla radical chic di turno ne La grande bellezza (2013), laddove in questo caso, tale solenne compito è affidato a Greta Cool, una attrice, totalmente disillusa dalla vita, che inveisce contro l’atavico squallore dei napoletani, puntualmente inclini alla autocommiserazione.

Del resto, parliamo di un uomo, Sorrentino, che Napoli l’ha lasciata, per rincorrere con successo il sogno di lavorare nel cinema. Il suo rapporto duale con la città non dovrebbe tuttavia farlo considerare quale un “figlio” ingrato, giacché, oltre alla nota passione per la locale squadra di calcio, in questo, come nel penultimo film (È stata la mano di Dio, 2021), lui dimostra di rimpiangere una città che ha perso una innocenza che non ha probabilmente mai avuto, come minimo dal Secondo Dopoguerra in poi, amandola e mal sopportandola nel contempo. Parthenope può, allora, essere inteso come un viaggio di ritorno dell’autore, che risulterà in una ineluttabile ripartenza.

 

Giovani, belli e senza coscienza

Si suggerisce che solo una età effimera qual è la giovinezza consente di sgravarsi dal peso della disillusione; quest’ultima una delle principali cifre nel cinema di Sorrentino. Invero, la sfuggevolezza di una esistenza pura e completa è chiarita dalla citazione iniziale ripresa dal grande scrittore francese Louis-Ferdinand Céline (al secolo, Louis Ferdinand Destouches, 1894 – 1961), a chiusura di Guerra (“Guerre”, 1934, ma pubblicato postumo da Gallimard nel 2022): “Come è enorme la vita, ci si perde dappertutto” (“C’est énorme la vie quand même. On se perd partout”). Una smarrimento per certi versi leopardiano, in cui è per l’appunto dolce naufragare.

 

“A cosa stai pensando?”, questa è la domanda che alcuni fanno alla enigmatica Parthenope. Lei, da sirena moderna, rimane silente, così da conservare il proprio potere di seduzione. Le è concesso di fare praticamente ciò che vuole, essendo al di fuori dei codici morali e delle regole sociali, barriere, pare alludere la narrazione, che i giovani, nel mentre vivono anni bellissimi eppure infelici, hanno il dovere di ignorare. Già, lo scorrere del tempo è un altro degli elementi cardine del film: si tenta di fermarlo, ovviamente senza risultato. Ecco perché a un determinato punto, quando la protagonista entra in una età che la allontanerebbe dalla più autentica giovinezza, la trama compie un salto di decenni, e la ritroviamo nei panni di una anziana professoressa di Antropologia Culturale (Stefania Sandrelli). A tal proposito, torna utile citare la battuta dello scrittore inglese John Cheever (un bel cammeo di Gary Oldman), che rifiuta di passeggiare con Parthenope, dicendo: “Non voglio rubare un istante della tua giovinezza”. Definire la pellicola un inno a Bellezza ed eternità sarebbe un tantino sintetico, ma non si cadrebbe in errore nel farlo.

 

Vogliamo riproporre, prima delle conclusioni, una riflessione che ci è già capitata di fare in libri e recensioni. Sarebbe a dire, che se il teorico dell’arte tedesco Konrad Fiedler (1841 – 895) elaborò il concetto di “pura visibilità”, allora potremmo affermare che questo ultimo lavoro del cineasta napoletano è un altro esperimento di “pura emozionalità”; la presenza di una narrazione strutturata non è francamente rilevante, considerato che è la forma in sé, praticamente sempre perfetta, che in Sorrentino prende lo spazio della diegesi. Esattamente come è accaduto per Youth – La giovinezza (2015), ove a dispetto del titolo si parla della sublime decadenza di un gruppo di vecchi artisti. Sorrentino e la sua “sirena” ci incantano e, in tale stato, in fin dei conti pensare è superfluo. Pertanto, scivolano gli innumerevoli motti di spirito, i ripetuti sarcasmi –  decisamente meno una scena con un uomo di chiesa alquanto inappropriata; la vita stessa di una ragazza che è in fondo un essere “vuoto”, bellissima sì, ma in sostanza non veramente intelligente e che non si “vergogna mai”. Capiamo dunque che il mondo è seduzione e inganno, le armi di Parthenope, le sole cose che la salvano dalla fatale infelicità a cui i suoi coetanei sono destinati. Ella si muove per la città, alternando alto e basso, poveri e ricchi, portando scompiglio; non amando nessuno, magari desiderando qualche volta, e rimanendo come Napoli: confusa fra “l’irrilevante e il decisivo”.

 

Un autore necessario

Lo stile è ingombrante in Sorrentino? A nostro personale avviso, no, benché possiamo capire chi, però solo se in buona fede, lo ritiene un cineasta pretenzioso e barocco. Non ci viene spiegato, e onestamente  poco importa, cosa pensi questa musa metropolitana. Alla luce di quello che si è detto, possiamo infine avanzare la ipotesi che il cinema di questo autore rappresenti uno dei casi abbastanza rari in cui la summenzionata Settima Arte si accosta alla Filosofia. Scontato chiarire che non ci riferiamo a quella di giganti del pensiero internazionale del ’900 quali Croce, Gentile ed Evola. Il fatto è che i film di Sorrentino inducono a una attenzione prolungata, a un ragionamento sovente solipsistico, che lui in prima persona tenta di disturbare con le arcinote inquadrature visualmente cariche, annoiando gli stolidi e irritando i saccenti. In una epoca come quella odierna, caratterizzata dalla totale mancanza di Logos, della quale il cinema è poi gran colpevole, si dovrebbero accogliere positivamente opere esteticamente meritevoli e che almeno provano a elevare e non a far sprofondare.

Voto: 8

Riccardo Rosati