Il Grinta, recensione di Riccardo Rosati

Il Grinta

 

Genere: Western

Nazione: USA

Anno produzione: 2010

Durata: 110′

Regia: Joel e Ethan Coen

Cast: Jeff Bridges, Matt Damon, Josh Brolin, Hailee Steinfeld, Barry Pepper

Produzione: Scott Rudin Productions, Skydance Productions

Distribuzione: Universal Pictures Italia

Sceneggiatura: Joel ed Ethan Coen, dal romanzo omonimo di Charles Portis

 

Una ragazzina determinata

La giovane Mattie Ross arriva a Fort Smith quale unica rappresentante della propria famiglia, in cerca del bandito Tom Chaney, che mentre era in preda ai fumi dell’alcol le ha ucciso il padre, per poi fuggire in territorio indiano, facendo perdere le sue tracce. Determinata a inseguire Chaney, per vederlo un giorno impiccato, Mattie chiede aiuto a uno dei più spietati sceriffi in circolazione: l’ubriacone dal grilletto facile Rooster Cogburn, il quale, dopo aver rifiutato più volte, alla fine accetta di aiutarla. Chaney è anche inseguito dal ciarliero Texas Ranger La Boeuf (Matt Damon), circostanza che porta il trio a incontrarsi lungo la strada. Risoluti e testardi, ciascuno guidato da una sua morale particolare, formano una posse alquanto improbabile che cavalca verso un futuro incerto e brutale.

 

 

Un remake non necessario

Persino un duo di talento come quello dei Fratelli Coen inciampa ogni tanto, come è già avvenuto, ad esempio, col poco incisivo L’uomo che non c’era (“The Man Who Wasn’t There”, 2001). Il Grinta (“True Grit”, 2010, che si potrebbe tradurre con “coraggio da vendere”) è un remake del celebre film omonimo di Henry Hathaway, col leggendario John Wayne e, malgrado sia senza dubbio una operazione di buon livello, non arriva all’intensità dell’originale del 1969. Inoltre, per quanto bravo, Jeff Bridges nei panni dello sceriffo duro e puro non ha certo il carisma di una icona della storia del cinema come Wayne.

 

I temi toccati sono i classici che animano il Western: sete di giustizia, voglia di vendetta, un contesto ambientale selvaggio e inospitale e la disperata ricerca di un rifugio sicuro. Il Selvaggio Ovest incarna l’unico vero mito puramente americano e le storie che raccontano la Frontiera, come questa, sono alla base di film in cui esiste spesso una dicotomia tra ferrovia, simbolo della evoluzione e del dinamismo culturale Yankee, e piccola città.

 

La vicenda ha inizio nel 1878 – all’epoca gli USA contano “solo” 38 Stati – nelle prossimità di un territorio che allora non era ancora di nessuno, ma che nel 1907 sarebbe diventato l’Oklahoma, e dove la terra era dominio assoluto dei Nativi Americani secondo l’Indian Intercourse Act del 1834. Quella descritta dai Coen è dunque una America di confine, narrata senza alcun romanticismo, in cui la Natura è mostrata priva di autentica suggestione. Ciò non dovrebbe sorprendere, giacché i due cineasti sono da sempre abituati a raccontare storie urbane, raffinate e complesse, ove spicca il dettaglio. Ragion per cui, si sono probabilmente trovati poco a loro agio nell’affrontare spazi immensi e quasi completamente incontaminati.

 

Trattasi formalmente di una pellicola molto sobria e persino troppo semplice, con la fotografia che indugia sui personaggi, con piani medi e piani americani: questa è una caratteristica dei Coen, per i quali le espressioni facciali, spesso grottesche e ridicole, dei propri protagonisti hanno sempre un ruolo molto importante per sostenere quell’humour sardonico presente in quasi tutte le loro pellicole. I due fratelli di Minneapolis (anche montatori del film con il solito pseudonimo di Roderick Jaynes) usano questa vicenda di vendetta come pretesto per raccontarci le contraddizioni che hanno segnato la conquista del Selvaggio West, ma lo fanno in modo distratto, tralasciando sia l’aspetto politico che quello sociale della questione. Nel loro film, del West resta solo la polvere e la sporcizia; si percepisce come forse questa volta la coppia di autori si sia confrontata con un genere, come detto, che non gli appartiene. Già, magari sta proprio qui il limite de Il Grinta, i Coen sono unici, al di fuori di regole e schemi, mentre il Western ha dei codici ben precisi, e potremmo azzardare nell’attribuirgli financo una specifica poetica.

 

Tuttavia, questa pellicola rappresenta anche la ennesima occasione per interrogarsi sul fatto che abbiamo a che fare con una tipologia di storie che ha esaurito la vena creativa, vi è ancora spazio per l’epica Western in questa era senza sogni, priva di eroi e nella quale la maggioranza delle persone ha “un dollaro d’onore”? Temiamo proprio di no, e l’opera dei Coen ne è la riprova.

 

Una ultima annotazione da parte di chi come noi ama spesso sottolineare la importanza di conoscere i generi narrativi, nonché la loro utilità per qualsiasi trama. Non importa quanto bravo possa essere un regista – lo stesso dicasi per uno scrittore – quando ignora i codici morali e narratologici di schemi perfezionatisi talora addirittura nei secoli, egli  sarà sempre vittima della illusione che il suo essere autore sia sufficiente per percorrere strade sconosciute, finendo immancabilmente per perdersi, palesando inoltre una mentalità francamente arrogante. Rammentiamoci che persino l’esercito americano alla conquista del West utilizzava scout indiani per trovare il giusto percorso… ogni “terra” ha la propria storia, attraversata da sentieri precisi.

   Riccardo Rosati