Uno dei personaggi di A COMPLETE UNKNOWN, biografia di Bob Dylan, è l’etnomusicologo americano Alan Lomax, collaboratore dell’italiano Diego Carpitella, il fondatore della etnomusicologia in Italia, da Alfredo Ancora “I Costruttori  di trappole del vento”

 

da Alfredo Ancora “I Costruttori  di trappole del vento” formazione  pensiero e cura in psichiatria transculturale” FrancoAgeli,Milano 2006, 2a ed. pp.171-185

 

Prima del compimento[1]

 

 

UN DIALOGO FRA L’ETNOMUSICOLOGO DIEGO CARPITELLA E LO E LO PSICHIATRA TRANSCULTURALE ALFREDO ANCORA

 

Ho concluso, ma sento che ho ancora qualcosa da dire prima di accomiatarmi dal lettore. Comincerò dal ricordo di un maestro. È sempre difficile parlare di qualcuno che è scomparso. Lo è ancora di più, quando si tratta di una persona molto amata con la quale si ha la sensazione di continuare a dialogare, nel senso forte di dia-léghein, ossia di “parlare con”. Quindi parlerò con Diego Carpitella [2]e non di Diego Carpitella. La mia è la descrizione di un incontro tra un maestro – e non solo di etnomusicologia – e uno psichiatra transculturale, pronto a transitare per modi e mondi diversi dal suo. Di un lungo e incessante viaggio di iniziazione per vie accidentate, lontane sovente dal dominio dell’asettica osservazione e ricerca scientifica. Di una sorta di educazione sentimentale di “occhi e orecchie mentali”. Del resto, chi più di Carpitella seppe offrire la testimonianza di multidisciplinarietà tra saperi che si attraversano e si mescolano, contaminandosi a vicenda?

Fornirò qui un calendario di date ed eventi significativi per il mio percorso intellettuale e umano. Fui presentato a Carpitella da una comune amica, Annabella Rossi, con Clara Gallini una delle due grandi dame dell’antropologia italiana, come le chiamava Diego. Si era alla fine degli anni Settanta. L’occasione dell’incontro fu fornita dal montaggio di un programma televisivo che stavano preparando Annabella e Giovanni Mingozzi. Mi era chiesto il parere di medico e di psichiatra sul brano di un’intervista fatta al medico condotto di Nardò. Nell’intervista il collega affermava che il fenomeno del tarantismo andava ricondotto alla penuria d’acqua di cui soffrivano i locali! Va detto, per inciso, che il tarantismo, almeno nella forma descritta da De Martino, non c’è più, mentre l’approvvigionamento idrico è purtroppo ancora un problema attuale.

Quando tornai dal Guatemala, dove avevo condotto una ricerca sulla psichiatria maya, volli mostrargli a tutti i costi le mie riprese ed esternargli la preoccupazione su come lavorarci per renderle più belle e interessanti. Spesso, seduti al tavolo di una trattoria di Roma che si trova di fronte al C.N.R. (Centro Nazionale delle Ricerche), con disarmante tranquillità e mirabile competenza – seppi in seguito da altri che era stato premiato a New York per i suoi documentari sulla cinesica – mi spiegava, a proposito di un documentario, la differenza tra documento e documentario, tra quello di cui disponevo e quello che volevo costruire forzando tempi, modi e soprattutto fidando troppo sulle mie limitate abilità di cine-operatore. Egli mi invitava soprattutto ad occuparmi più del documento e meno del documentario. In realtà – era questo l’insegnamento di Diego – quando si scende in campo (nel senso di mettersi in gioco) e sul campo (inteso come il contesto su cui operare) “si trova quello che si cerca”.

Un giorno mi raccontò di essere andato a Langadas, una località vicina a Salonicco, per seguire il rito degli anastenares[3] in onore di San Costantino e Sant’Elena, una cerimonia durante la quale si suona anche la lira. Diceva: “mi sono venute in mente tante domande al mio ritorno in Italia. Per esempio, che succede nella vita di ogni giorno in questo villaggio, prima e dopo la cerimonia di maggio? Perché a capo della confraternita che protegge e preserva questo rituale c’è uno psichiatra? È solo una coincidenza o si tratta di una sorta di terapia di gruppo mascherata da cerimonia religiosa? È’ un gruppo chiuso, per certi versi poco accessibile all’esterno, con modalità quasi da comunità segreta?”. Come al solito, Diego era stato capace di innestare domande-stimolo tali da spingermi a partecipare a una nuova spedizione a Langadas. Alla fine di questa esperienza scoprii che: a) il sacrificio di un bue e la danza sulle braci – momento saliente del rito – rinviavano a un complesso universo rituale probabilmente antichissimo, di origini tracie; b) la Chiesa ortodossa ufficiale osteggiava la cerimonia perché eterodossa (Ricordo, a questo proposito, che i monasteri della zona suonavano a stormo le campane e per disturbare la manifestazione e per ammonire severamente chi, violando l’interdetto della Chiesa, vi partecipava). Riflettendo poi sulla presenza dello psichiatra, messo a capo della confraternita, compresi che la sua funzione era quella di promuovere l’identità del gruppo e lenire le sofferenze mentali dei suoi membri. Non si poteva parlare certo di una vera e propria psicoterapia di gruppo, ma non c’era dubbio che tenerlo coeso, riproponendo usi e tradizioni che, in caso contrario, sarebbero andati perduti, costituiva un momento di benessere collettivo e permetteva inoltre il darsi di uno spazio protetto per eventi di estasi individuali. Si trattava di un’impostazione culturale e religiosa, chiusa a riccio nei confronti della comunità locale e della Chiesa, che portava la confraternita ad essere accusata di settarismo e di un conservatorismo politicamente sospetto.

Nel 1987 Diego mi invitò a tenere una relazione un po’ “forte” – espressione sua tipica con la quale definiva relazioni che non fossero come quelle sonnifere degli psichiatri convenzionali – ma del tipo di quelle che era solito tenere nella biblioteca del suo istituto della Facoltà di Lettere dell’Università di Roma (quella che oggi si chiama “La Sapienza”). Voleva inoltre che il mio discorso fosse fuori dagli schemi, tale da suscitare curiosità e interrogativi anziché rafforzare il narcisismo del relatore. La relazione andava tenuta in un convegno organizzato dal C.N.R. sul tema “Possessione: aspetti socioculturali e coreutica”. Il mio contributo era annunciato così: “Lo psichiatra e lo stregone: un dialogo tra colleghi”. Mi ero ispirato a una nostra conversazione nel corso della quale Diego mi aveva detto come, in determinate culture, vengano attivate tecniche rituali incentrate sul coinvolgimento totale del guaritore. Da parte mia avevo a quel tempo compreso come a qualsiasi tecnica, anche la più “scientifica” e asettica, siano sottesi uno stile di pensiero totalizzante e la presenza di tutta una cultura.

Il continuo interrogarsi di Diego era divenuto anche il mio. Che cosa succede quando si incontrano uno psichiatra e un marabut, esperto di malattia e di guarigioni, ma anche ricco di spiritualità? Scatta nel primo la suggestione per l’esotico o, come si direbbe oggi, per l’etnico? C’è la possibilità di tentare una correlazione tra mondi mentali formalmente così dissimili? A quale livello mettersi in gioco e quali livelli mettere in gioco in occasione di un simile incontro-scambio tra due concezioni diverse del mondo, della malattia e della cura? È sulla scena il bisogno della scuola occidentale “eurocolta” (termine adoperato abitualmente da Diego) di appropriarsi di tecniche inedite, seguendo la sua vocazione di mirare più al possesso che all’incontro? Ma, allora, che cosa vuol dire, parlare in questo caso di “colleghi”? Meglio precisare per non dare adito ad equivoci. Insomma, è solo l’incontro tra due persone o anche tra due mondi e due pensieri? Spesso non facciamo che estrapolare la tecnica dalla sua peculiare logica, riducendo il tutto a un mero spostamento di una cosa da un posto al- l’altro. Infine, qual è l’obiettivo che si pone osservando ciò che avviene tra due individui appartenenti a due diverse culture e quali esiti produce l’opzione di considerarle sempre in contrapposizione invece che in relazione? Fu allora che cominciai a chiedermi se noi psichiatri fossimo disposti a conoscere “altro” da “altri”, a lavorare insieme, per il tramite di un processo di iniziazione mediante il quale si può imparare a coniugare il rito con la storia, nonché a riguardare la musica e la danza come momento di comunicazione e di conoscenza. Se fossimo disposti davvero a superare le anguste strettoie di chi, quando anche vuole conoscere, resta fermo, attento a non esporsi, a non contaminarsi, piuttosto che a cercare di entrare negli interstizi delle conoscenze “altre”.

Nel 1987 organizzammo[4], presso il nostro Centro di Studi di Psicoterapia e Ricerca Sistemica, una serie di seminari sul tema “Come ci costruiamo la realtà”. La relazione del seminario di Diego era intitolata “La costruzione di un paesaggio sonoro nella tradizione popolare”. In quella occasione presentò il suo documentario sulla melo-terapia e la cura domiciliare, girato in 16 millimetri durante una ricerca condotta con De Martino. Descriveva così la sua posizione di osservatore durante la cerimonia: “io stavo in un angolo, un po’ timido”. Con la presentazione del filmato chiedeva a noi psichiatri e psicoterapeuti che cosa intendessimo per realtà e, in particolare, per costruzione di una realtà terapeutica partendo dal senso che la musica, come formalizzazione di suoni, aveva in una determinata cultura. Diego ci fece toccare con mano come essa riuscisse ad avere un effetto sedativo straordinario, registrando tensioni e contenendo angosce, sino a fare assumere a quello che poteva essere considerato un fenomeno drammatico le sembianze rassicuranti di uno spettacolo rituale. Noi che ci occupavamo, e ci occupiamo, di sofferenza psichica e che spesso nel nostro lavoro indossiamo la veste di chi va ad officiare quel particolare rito che è la terapia, non riuscivamo e non riusciamo spesso a cogliere gli aspetti “liturgici” del nostro lavoro, i ritmi, le pause, le eventuali stonature! Nello stesso tempo, lo stupore e la meraviglia che ci suscitavano le osservazioni di Diego ci invitavano a considerare i fenomeni presentati nel documentario non solo come momenti di estasi e, soprattutto, di eucenestesi, ma come vie di accesso alla conoscenza. In seguito, quante volte abbiamo cercato nel nostro lavoro di volgere disarmonie in armonie o, più modestamente, arrangiamenti probabili che, pur non deliziando le orecchie, riuscissero almeno a calmare l’inquietudine dei “suoni” interni? Quante volte, in occasione di una terapia familiare o di gruppo, non siamo stati in grado di capirne il ritmo o seguirne la danza, preferendo affidarci ai soliti ritornelli mentali cui siamo abituati e che ci paiono tanto e sempre intonati? L’assenza di suoni e delle stesse dissonanze diverse è più disperante dell’urlo nero della follia. Non a caso Diego, di ritorno dal Mozambico, raccontò con rincrescimento che il suo era stato un viaggio monotono e mono-corde. Diceva di avere ancora nella testa un solo tipo di suono, anzi di rumore metallico, quello delle armi al quale, precisava, “il mio orecchio non ha mai voluto prestare attenzione”.

Spesso ci incontravamo in via Borelli, nella sede dell’Istituto di Anatomia dell’Università di Roma, l’unica istituzione che aveva offerto ospitalità all’Associazione Italiana di Cinematografia Scientifica, dove mi presentò al presidente, Virgilio Tosi, e a Laura Operti, antropologa ed esperta di documentari etnografici. In quelle occasioni assistetti alla proiezione di opere rare e stimolanti, soprattutto quelle riguardanti altri sistemi di cura e gli operatori “altri”, che mi spinsero successivamente ad interessarmi degli sciamani. Infatti, in seguito lo cercai proprio per mettere a punto il mio primo viaggio in Siberia, ma … non c’era più … anche se per me e, penso, per noi tutti, si è solo allontanato…

Infatti è qui tra noi… sempre di più!..

 

Ho voluto concludere questo libro – con commozione-con Diego Carpitella, perché ho voluto scandire il ricordo di un maestro e amico al presente. Un tempo questo, che impedisce di chiudere in una reale conclusione quello che è tuttora un work in progress, un viaggio conoscitivo di cui ho voluto sottolineare i momenti salienti. Le mie sono perciò soltanto note finali e “note” vuole avere qui lo stesso significato che ha la parola “corto” nel linguaggio cinematografico: un’espressione che scandisce la differenza tra un insieme di flash e un vero e proprio film, dotato di un ampio respiro narrativo. Per questo mio lavoro utilizzerei l’inglese book-live, un libro dal vivo, perché ho voluto mettere sulla carta immagini, sensazioni, storie di persone, luoghi. Ho cercato di inserirli in un contesto sociale e culturale come il nostro, moderno o post-moderno, se si preferisce, che è contrassegnato spesso da non-luoghi e da non-persone impedendo il nascere di trame narrative degne di significato bisognose di altri tempo! Un elogio della lentezza -forse- !

Alfredo Ancora

Alan Lomax e Diego Carpitella: due grandi documentaristi in Salento

Dal blues alla taranta il viaggio di Lomax

 

Carpitella, Diego

Etnologo ed etnomusicologo, nato a Reggio di Calabria il 12 giugno 1924, morto a Roma il 7 agosto 1990. Insegnò presso il Conservatorio di Roma (1952-76), all’Accademia nazionale di danza (1953-73), nella Libera università abruzzese degli studi di Chieti (1968-70) e dal 1970 all’Università di Roma “La Sapienza”, dove fu titolare dal 1976 della prima cattedra di etnomusicologia. A questa disciplina, alla quale si dedicò fin dall’immediato dopoguerra divenendone uno degli iniziatori in Italia, C. approdò attraverso gli studi sull’opera di B. Bartók. Curò la traduzione e l’edizione italiana di testi fondamentali di Bartók (1955), C. Sachs (1966 e 1979), A. Schaeffner (1978), C. Brailoiu (1978), A. Merriam (1983). Fu promotore nel 1973 del Primo convegno sugli studi etnomusicologici in Italia, dal quale prese il via l’attività della Società italiana di etnomusicologia (C. ne fu presidente dal 1973 al 1986). Presidente della Società italiana di cinematografia scientifica dal 1984, nello stesso anno entrò a far parte del Consiglio accademico dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia, assumendo inoltre, nel 1989, la carica di conservatore del Centro nazionale studi di musica popolare (poi denominato Archivi di etnomusicologia).

Dall’inizio degli anni Cinquanta, C. prese parte con un’équipe interdisciplinare guidata da E. De Martino alle ricerche sul pianto rituale in Lucania e sul tarantismo nel Salento, nelle quali vennero per la prima volta documentati aspetti peculiari e originali della cultura musicale popolare italiana in un quadro etnologico ampio e articolato; il metodo di ricerca sul campo e di raccolta dei documenti sonori e visivi messo in opera costituiva esso stesso una novità nel panorama degli studi italiani del tempo. Ricordiamo inoltre la vasta campagna di raccolta di materiali musicali in varie regioni italiane, intrapresa a metà degli anni Cinquanta con l’etnomusicologo statunitense A. Lomax e in collaborazione con il Centro nazionale studi di musica popolare (fondato nel 1948 per iniziativa di G. Nataletti). Le campagne successive ampliarono il campo di indagine a molte regioni italiane e ad alcuni repertori extraeuropei.

 

Fin dalle prime esperienze, C. avviò una riflessione sulla documentazione visiva nella ricerca etnologica, sviluppata negli anni successivi nell’ambito della ‘cinesica culturale’ (studio del linguaggio corporeo e dei suoi ‘vocaboli’) e, più in generale, dell’antropologia visiva. Allo sviluppo sistematico di queste discipline, essenziali nell’indagine su fenomeni culturali di tradizione orale, e al loro adeguamento al contesto italiano, C. si dedicò in particolare a partire dagli anni Settanta. La ricerca sui fenomeni più strettamente legati all’oralità musicale, come il rapporto fra musica e trance o le componenti coreutiche e gestuali dei comportamenti musicali, ebbe come corollario nel lavoro di C. l’applicazione di talune osservazioni e riflessioni, nate appunto nell’ambito degli studi sui repertori orali, a campi di indagine della musicologia tradizionale e ad ambiti musicali di tradizione scritta, con risultati assai innovativi. In questo contesto si colloca tra l’altro il pluriennale interesse per il ‘mito del primitivo’ nella musica contemporanea.

Fra le sue opere, oltre alle voci enciclopediche per il Grove’s dictionary of music and musicians, per La Musica, per il Dizionario enciclopedico della musica e dei musicisti, ricordiamo: Il primitivo nella musica contemporanea (1961); Materiali per lo studio delle tradizioni popolari (1972); Musica e tradizione orale (1973); L’etnomusicologia in Italia. Primo convegno sugli studi etnomusicologici in Italia (1975); Folklore e analisi differenziale di cultura (1976); Il linguaggio del corpo e le tradizioni popolari. Codici democinesici e ricerca cinematografica (1979); Pratica e teoria del film etnografico italiano: prime osservazioni (1981); Il mito del primitivo nella musica moderna (1989); Conversazioni sulla musica. Lezioni, conferenze, trasmissioni radiofoniche 1955-1990, a cura della Società italiana di etnomusicologia (1992). Ha curato la pubblicazione dell’importante raccolta Ethnomusicologica. Seminari internazionali di etnomusicologia 1977-1989 (1989). Si ricordano inoltre i dischi Northern and central Italy and the Albanians of Calabria (1957), Southern Italy and the Islands (1957), Italian folk music I e V (1972), tutti in collaborazione con A. Lomax, Musica sarda (1973), con P. Sassu e L. Sole, Musica contadina dell’aretino (1976). La filmografia comprende: La terapia coreutico-musicale nel tarantismo (1960); la serie Cinesica 12 e 4 (1975-80); La Gerusalemme di San Vivaldo: un sacro monte di Val d’Elsa (1982-83); I quaderni di Reginaldo (1988).

bibliografia

  1. Giannattasio, L’attività etnomusicologica di Diego Carpitella, in Lares, 1991, 57, pp. 93-109; Diego Carpitella: bibliografia. Con un’appendice nastro-disco-videofilmografica, a cura di R. Tucci, in Nuova rivista musicale italiana, 1992, 3/4, pp. 523-72.

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  1. [1] Ho voluto intitolare così quest’ultimo capitolo in quanto, se lo considero da un lato deputato a tratteggiare le conclusioni di questo mio lavoro, dall’altro lo immagino come un progetto che non si può concludere Mi sono così ispirato, dopo una intensa conversazione con Franco Voltaggio, alla versione italiana corrente dell’ultimo dei 64 esagrammi del libro dei mutamenti, che si chiama appunto prima del compimento. Gli autori di questo antico testo voleva- no porre l’accento sul fatto che l’universo è un gigantesco cerchio certamente in moto talché, quando il processo si conclude ricomincia di nuovo, rispettando l’elementare regola geometrica che vuole che il punto di inizio di una eclisse, il cui fuoco è O (il cerchio), coincida col punto d’arrivo.

 

[2]Tratto dalla mia relazione  “Un dialogo fra un etnomusicocologo ed uno psichiatra transculturalurale”presentata al Convegno internazionale   L’ eredità di Diego Carpitella. Etnomusicologia, antropologia e ricerca storica nel Salento e nell’area mediterranea. (Galatina 21-23 giugno 2002)

[3] Debbo a Romano Mastromattei ,grande studioso di sciamanesimo la segnalazione del più ampio testo sull’argomento: DionisyaKa, aspects of the popular Trhacian religion of to-day, by K.J. Kakouri, translated from greek, G.C. Eleftheroudakis editions, Athens, 1966.

 

[4] Insieme ad Alessandro Fischetti.In realtà fu un primo tentativo di proporre temi e dibattiti  che esulassero da campo strettamente   della terapia familiare per  trovare collegamenti con altre discipline. Un lavoro da indisciplinati– fuori dalla disciplina -(come suggeritomi dal mio maestro Bruno Callieri decano della psichiatria italiana ) che avrebbe caratterizzato anche le ricerche successive.