C’è una caratteristica nella trilogia di Diabolik che la qualifica, ma che allo stesso tempo ne costituisce per così dire il limite.
Si tratta dell’aderenza della sceneggiatura, e dell’azione filmica tutta, al fumetto.
Ci si chiederà: Ma cosa diavolo avrebbero dovuto fare i Manetti bros., se non fedelmente rifarsi al fumetto? Hanno scelto di fare il Diabolik film, mica Cazzonik. Mica Minchionik.
Diabolik.
Avessero fatto Minchionik? Se avessero fatto Minchionik, avrebbero potuto spaziare. Avrebbero potuto sbizzarrisrsi. Avrebbero potuto costruire una sceneggiatura sofisticata, dialoghi maturi da noir di classe, avrebbero potuto penetrare le personalità dei personaggi, avrebbero potuto agganciare l’attenzione dello spettatore con boutade e colpi di scena, intrecci narrativi maravigliosi e inaspettati.
E invece no, hanno scelto Diabolik. E Diabolik mica lo puoi snaturare. Diabolik quello è, e quello deve rimanere.
E allora…. E allora film fedelissimi, rispettosi del personaggio, del mito, dell’eroe in bianco e nero, film che se hai deciso di fare quello, quello devi e puoi fare, nient’altro. Ma nella bellezza del fumetto, nella fedeltà all’eroe in bianco e nero, nel rimanere nei binari che non possono essere alterati pena il deragliare dall’obiettivo prefissato, tra questi paletti risiede la qualità e il limite stesso dell’opera tutta; che comunque è cinema, è immagine in movimento, è narrazione sofisticata, è emozione, suggestione, meraviglia, empatia, pathos, intreccio, approfondimento emotivo… qualità che i Manetti bros. hanno deliberatamente e giustamente deciso di far scomparire dal loro lavoro. Una recitazione volutamente sopra le righe, personaggi ritagliati con le forbici, dialoghi perfetti per un fumetto ma che risultano semplicistici se trasferiti sullo schermo, se pronunciati da labbra in movimento piuttosto che solo disegnate…
Ma questo è Diabolik, e altro non può essere.
Diabolik non è Minchionik, di Evaristo Donati
